La vergogna dell’Europa

26-01-2021 - Notizie

La vergogna dell’Europa

di Gabriele Sala

 

Finalmente, dopo che per due anni se ne erano occupati solo alcuni quotidiani e rotocalchi come il Manifesto, Avvenire, il Fatto quotidiano, Famiglia cristiana e l’Espresso, anche le reti televisive nazionali come la Rai, La7 e Tv 2000 hanno cominciato ad occuparsi di quella che è la più grande tragedia che si svolge alle porte della nostra Europa, culla della civiltà, della cultura, della cristianità e della solidarietà: migliaia di persone che percorrono a piedi la cosiddetta “rotta balcanica”, procedendo in fila indiana nella neve, con vestiti e scarpe inadeguate, avvolti in una coperta e con sandali infradito ai piedi, spesso con i segni delle percosse o bruciature di sigarette sul corpo, stanchi, affamati, infreddoliti, immagini di volti e  di corpi di persone il cui sangue ha lo stesso colore del nostro, eppure disprezzati, odiati, scacciati come animali selvatici. Sono perlopiù giovani, ma ci sono anche intere famiglie e, purtroppo, anche minori non accompagnati. Provengono da Afghanistan, Pakistan, Iraq, Siria, alcuni anche da Paesi africani, ritenendo la via di terra più sicura rispetto a quella del mare.

L’associazione Mamre di Borgomanero, tra il 2018 e il 2019, ha compiuto dodici missioni in Bosnia e Erzegovina (poi interrotte a causa del Covid 19), nel cantone di Una Sana, una regione a nord ovest del Paese, al confine con la Croazia. Qui abbiamo portato, in collaborazione con la Croce Rossa di Arona, vestiti, scarpe, sacchi a pelo, coperte, articoli per l’igiene personale, pentoloni, mestoli e perfino una lavastoviglie industriale che abbiamo donato alla Croce Rossa di Bihac insieme al denaro necessario per acquistare cibo che servirà per preparare i pasti per i profughi sistemati nel Dom Borici, un lugubre fabbricato che avrebbe dovuto diventare uno studentato, ma i lavori vennero interrotti nel ’93 a causa della guerra. Questo casermone, posto in cima ad una collina alla periferia di Bihac, sprovvisto di acqua, luce, riscaldamento (inizialmente anche di porte e finestre), ospita perlopiù famiglie con bambini, mentre nel boschetto antistante si trovano tende improvvisate entro le quali vivono soprattutto giovani.

Quello del Dom Borici non è l’unico campo che abbiamo visitato, poiché all’orrore non c’è mai fine. Ben più scioccante è stato l’incontro con il campo di Velika Kladusa, una località a ridosso del confine croato, 60 km. a nord di Bihac, dove una tendopoli di fortuna offre riparo (ma è un eufemismo) a 3 o 400 persone. Il terreno sul quale sono poste le tende, dalle quali spuntano i visi spauriti di alcuni bambini, quando piove si trasforma in un fangoso acquitrino; i pasti sono assicurati dai volontari delle associazioni No name kitchen e SOS Team Kladusha, che provvede anche alla distribuzione di vestiti usati. Ma ancora più sconvolgente è stata la visita al campo di Vucjak, località che significa “la tana del lupo”. La zona dove è stato allestito da pochi mesi il campo profughi è un’ex discarica di rifiuti tossici a cielo aperto dove la municipalità di Bihac, di cui fa parte il territorio, aveva inizialmente previsto di allestire un canile, dato l’elevato numero di randagi presenti in città, ma la zona non è stata ritenuta idonea per i cani … ma per gli uomini sì. Nelle tende offerte dal governo turco si stipano centinaia di persone in fuga soprattutto dal Medio Oriente e dalle aree più povere dell’Asia. Tanti sono nelle tende a preparare sul fuoco, alimentato da piccoli rametti di legno recuperati nei boschi, qualcosa da mangiare, altri si lavano vestiti alle docce allestite all’aperto, altri camminano con ciabatte, scarpe rotte o infradito; chi dispone di un paio di scarpe buone, le riserva per il game, il gioco, come lo chiamano loro perché, come nel gioco dell’oca, quando superi l’arrivo sei costretto a tornare indietro. E c’è chi questo gioco lo ha tentato cinque, dieci o dodici volte.

Ma l’aspetto più che tocca più nel profondo in queste missioni è proprio l’incontro con le persone: essi sono anime vive, sono esseri portatori di speranza. Sì, perché solo chi è animato da una grande speranza può lasciare alle spalle tutto ciò che ha di più caro per affrontare un viaggio lungo, faticoso e pieno di insidie per inseguire un sogno: un sogno di pace, di sicurezza, una vita nella quale sia possibile intravedere un futuro.

Un sogno, per molti, destinato a rimanere tale: tra quanti sono riusciti a raggiungere i Balcani e cercano di arrivare in Europa, alcuni muoiono annegati attraversando i numerosi fiumi; altri, sorpresi dal freddo mentre valicano le montagne, muoiono assiderati; altri ancora muoiono a causa delle piaghe infette causate, a volte da traumi accidentali, ma molto spesso dalle percosse, dalle torture, o dai i morsi dei cani addestrati delle tante polizie dei Paesi che si trovano ad attraversare, in particolare quella croata.

Quando vengono intercettati dalla polizia croata, o slovena, vengono privati degli abiti, delle scarpe, di quel poco di denaro che posseggono, del cellulare che, oltre a mantenere i contatti con la famiglia d’origine e rintracciare parenti o amici che devono raggiungere (soprattutto in nord Europa), serve a loro anche per orientarsi con il segnale GPS. Vengono quindi riportati in Bosnia, ma più a sud del confine, per rendere più difficoltoso un nuovo tentativo.

Non è la forza della disperazione che consente loro di affrontare le difficoltà: la disperazione è stanchezza mentale, emotiva e comportamentale; si presenta quando si è stanchi di provare le numerose delusioni e la conseguente tristezza. La disperazione è un veleno che estingue a poco a poco l’illusione, la motivazione e l’energia; è abbandonarsi all’abbraccio delle tenebre.

Solo se si è animati da una grande speranza si possono affrontare sfide di questa portata, solo se si riesce ad attivare capacità di resilienza, che significa essere in grado di far fronte in maniera positiva ad eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di cercare costantemente le opportunità positive che la vita offre, è possibile mantenere quella integrità psichica necessaria per continuare il proprio viaggio.

La nostra gloria più grande non sta nel non cadere mai, ma nel risollevarci ogni volta che cadiamo”.

(Nelson Mandela)

 

Quando abbiamo ascoltato le loro storie nei vari campi di sembravano assomigliarsi un po’ tutte: c’è chi è scappato dalla furia dell’ISIS; il barbiere che ha dovuto abbandonare in fretta e furia la sua attività a causa della Sharia, la Legge islamica che vieta agli uomini di radersi; c’era il cristiano che non voleva essere indottrinato a forza dai talebani in una scuola coranica; e il giovane pakistano a cui ho chiesto: “Perché fuggi? In questo momento non c’è la guerra nel tuo Paese!”; e lui mi ha risposto: “Quando hai 18 anni e i talebani ti mettono in mano una pistola e ti dicono: “vai e uccidi quel cristiano!” hai davanti a te due possibilità: o uccidi e diventi un assassino come loro; oppure fuggi per non essere ucciso a tua volta. E io non volevo diventare un assassino” (“I didn’t wanna be a Killer”). Poi ci sono storie di vendette famigliari, di abusi…

Ci sono padri, perché li abbiamo visti – e permettetemi questa piccola digressione – che per la sopravvivenza dei propri figli, hanno gettato alle spalle quel poco che è tutto ciò che avevano; padri capaci di percorrere a piedi l’universo intero, pur di trovare un luogo capace di accogliere i propri sogni viventi, ai quali un giorno hanno donato occhi grandi e incontenibile desiderio di aprirli.

E poi, ce ne sono altri, che vediamo ogni giorno, così miopi d’empatia e sentimenti da insegnare al sangue del proprio sangue che la distanza tra le genti lontane vale più delle genti stesse. Sono quelli che, chiusi nel loro egoismo, non riescono a comprendere le conseguenze che hanno parole come identità, confini, patria, orgoglio nazionale… Sono queste le parole che utilizzano nei loro proclami i nostri leader sovranisti, i fomentatori di odio, i seminatori di paura sulla quale costruiscono il loro consenso politico e il loro potere.

Per usare le parole dello scrittore italo-eritreo Alessandro Ghebreigziabiher “… affinché l’uomo spaventato, al riparo della sua casa, ignori quali ignobili azioni compia il feroce guardiano al limitar del villaggio”.

A tal proposito, vale la pena ricordare che anche l’Italia non è esente da comportamenti privi di umanità e che, speriamo, con la recente modifica dei Decreti sicurezza, finiscano per sempre.

Succede infatti che al confine italo-sloveno, in aperta violazione con le Leggi nazionali e internazionali, negli scorsi mesi il Viminale abbia destinato una parte dei militari destinati all’operazione Strade sicure ai pattugliamenti di frontiera: le autorità le definiscono eufemisticamente riammissioni, mentre il vice-sindaco leghista di Trieste, Paolo Polidori, preferisce chiamarli apertamente respingimenti:    “Li fanno in tutta Europa – dice- solo noi della Lega non possiamo, altrimenti ci tacciano di razzismo”.

Quando arrivano a Trieste, passando attraverso i boschi in piccoli gruppi di due, tre o quattro persone, la polizia li lascia entrare, li tiene d’occhio con i droni, poi, quando tendono a raggrupparsi in piazza in trenta o quaranta, arrivano i poliziotti, li caricano su un pullman, rassicurandoli che sono ormai al sicuro e li portano in una ex-caserma militare a poche centinaia di metri dal confine. Qui vengono rifocillati, quindi vengono fatti risalire sul pullman, convinti di essere accompagnati in un posto sicuro, invece vengono riaccompagnati in Slovenia e consegnati alla polizia locale, che li riporterà in Croazia e, dopo ulteriori botte e umiliazioni, rispediti in Bosnia.

E’ di questi giorni la notizia secondo cui il Tribunale di Roma ha sancito l’illegalità della procedura delle “riammissioni” dall’Italia alla Slovenia (che nel 2020 ha riguardato almeno 1.400 persone) in quanto viola le norme internazionali, europee e nazionali che regolano l’accesso alla procedura di asilo, in particolare l’articolo 10 della costituzione italiana, l’articolo 33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati che sancisce il divieto di respingimento e l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che sancisce lo stesso principio. 

L’ordinanza del Tribunale di Roma ha confermato i comportamenti illegali messi in atto dal Viminale, nonostante le smentite e le parziali ammissioni della ministra Lamorgese, che hanno esposto consapevolmente le persone a trattamenti inumani e degradanti lungo la rotta balcanica e a torture in Croazia.

Inoltre, il 20 novembre l’Ufficio del Difensore civico europeo ha annunciato l’apertura di un’inchiesta sulle possibili responsabilità della Commissione europea nel mancato rispetto dei diritti dei migranti e dei rifugiati in Croazia. Il fascicolo è stato aperto dopo un rapporto di Amnesty International e di altre organizzazioni che operano lungo la rotta.

L’Europa, la nostra Europa, culla dei diritti umani, della civiltà, della cristianità e della solodarietà, è sprofondata in un abisso vergognoso di illegalità e di violenza nei confronti dei migranti che percorrono la via dei Balcani.

In questo precorso disperato, i migranti, pur avendo diritto allo status di rifugiato, sperimentano i manganelli della polizia di confine, i morsi dei cani da inseguimento e perfino le torture; vengono privati delle scarpe e degli effetti personali per ostacolare il loro transito verso quella che, per loro, rappresenta la speranza in una vita migliore e più dignitosa.

E questo avviene anche nei giorni in cui l’Europa ricorda gli orrori del nazismo e del fascismo.

 

( Autore immagine: Raimond Spekking  )