“Sulla soglia” e Bose

31-03-2021 - Notizie

“Sulla soglia” e Bose

da angelo

 

Con un poco di tremore, esco dal silenzio per condivider con voi una parola su Bose, una parola che di suo è piccola e confessa tutta la sua piccolezza, perché non va nell’orizzonte delle affermazioni perentorie, ma va a rivendicare, se possibile, la necessità, la bellezza e l’efficacia di uno stile. Chi aspettava da me una parola assoluta rimarrà deluso.

Intervengo su Bose dopo aver invitato – fin dall’emergere di questa dolorosa vicenda – al silenzio e alla preghiera. Così non è stato. Non vorrei passare per presuntuoso, ma il fiume delle parole e delle interpretazioni e la sicurezza e l’audacia dei giudizi, a mio avviso e ad avviso di molti amici, non hanno portato balsamo, ma hanno riaperto ferite.

C’è un rispetto, per me doveroso per le ferite: talvolta, o spesso, non ci si chiede se le parole che osiamo vanno a fare da balsamo o ad aggiungere sofferenza in una parte e in un’altra.

Il logo “Sulla soglia” dice questo pudore, questa non potenza ad invadere, dice attesa e rispetto dei volti. Alcune nostre parole, forse su spinta di emozioni, non mi sembrano aver onorato questo stile, che racconta chi siamo o meglio chi vorremmo essere.

E’ lo stile di chi non pensa di sapere tutto, di non avere il diritto di sapere tutto, di chi ama senza violare la soglia.

Il bene che abbiamo ricevuto e riceviamo dal monastero di Bose e da Enzo che ne è il fondatore, il bene che vogliamo ad Enzo e al monastero, ha portato molti di noi in questi mesi a custodire nel cuore e nella preghiera in modo particolare un tesoro prezioso, spesso dimenticato dall’invasione stordente dei mezzi di comunicazione, il tesoro del monastero frutto dell’intuizione di Enzo e costruito con passione, confidando nella grazia, giorno dopo giorno, con l’apporto di tutti, di ciascuno, nessuno escluso.

La mente in questi mesi si riempiva di visi che amiamo, monache a monaci feriti da pesantezze di giudizio. Li accompagnavamo in silenzio nella preghiera: li vedevamo alzarsi all’alba, pregare, cantare a Dio, sostare sulla Parola, lavorare, accogliersi anche nella loro fragilità, ospitare senza esclusioni, portare negli occhi il sogno dell’ecumenismo, tenere acceso, nonostante tutto, un fuoco, del cui tepore e della cui luce molti di noi abbiamo goduto e ancora godiamo. Il monastero riempiva nel silenzio i nostri pensieri e la nostra preghiera. Il card. Martini ci aveva insegnato la preghiera di intercessione, lo stare in mezzo, senza cancellare né l’uno né l’altro.

Non ci appartiene, ci ferisce profondamente, la visione di coloro che danno il monastero per morto. Sta vivendo certo giorni non facili e noi crediamo nel Dio dei vivi e non dei morti. I visi delle monache e dei monaci, dal primo all’ultimo, ci sono troppo cari per non pregare perche questo travaglio, sia nel segno dell’immagine evangelica della donna che partorisce. Certo il contesto evangelico dell’immagine è diverso, ma la vorremmo evocare per la speranza che accende: “La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo”.

Non conosciamo i tempi. Ci sono stagioni in cui il seme nella terra sembra non dare segni. Ma noi troppo crediamo nella forza che vi è custodita. Saremo ingenui, ma crediamo nei cammini in cui ritrovarsi, nel rispetto delle strade di ciascuno dentro l’avventura comune che ci unisce della sequela del Signore.

Ho cercato di restare lontano da giudizi perentori. Mi sembrava prezioso richiamare in particolare a me e a tutti voi uno stile – qualcuno l’ha chiamato mitezza, può avere molti nomi – di cui sento in modo struggente il bisogno.

Pulsa in me, in noi, la speranza che Il tepore della Pasqua, con il soffio del Risorto, penetri nel terreno. Anche là dove oggi non vediamo.

                                                                                                          angelo