Gittati

23-09-2021 - Notizie

INTRODUZIONE

 

A cura di Claudio Curcetti e Guido Tallone

 

Gittati: così il vescovo di Cremona Geremia Bonomelli descrive, nella sua Lettera Pastorale, L’Emigrazione del 1896[1], gli italiani che sono obbligati a cercare speranza, dignità e lavoro oltre i nostri confini nazionali. L’espressione è diretta, immediata e con forte carica emotiva: “gittati” come stracci, come cose senza valore lanciate nello sgabuzzino (che spesso e volentieri si presenta come l’anticamera della spazzatura); gittati dove non possono disturbare, dove non è possibile notarli e dove nessuno può sentire la loro voglia di lavorare e di riscattare quella miseria che li ha costretti ad intraprendere un viaggio quasi sempre di “sola andata”.

Gittati non è parola tecnica o categoria giuridica (non sono ancora di moda, nel 1896, le nostre parole tecniche sull’immigrazione: clandestini, profughi, regolari, richiedenti asilo o in attesa di permesso di soggiorno, etc.). Non è nemmeno vocabolo che appartiene alla sfera dell’etica. Non c’è traccia – nella parola – del giudizio morale sulla scelta di lasciare il Paese natale e di partire per altre mète.

Il termine “gittati”, puramente descrittivo, viene utilizzato dal Vescovo di Cremona, per “rendere visibile” (una fotografia o un dipinto, decida il lettore) ciò che la maggioranza dei suoi connazionali e delle autorità italiane (tra le quali anche molti vescovi e altrettanti parroci!) non vogliono vedere: quella massa enorme di persone che, ogni anno, con valigie, bauli e con la faccia disperata di chi è costretto a fuggire dall’Italia denuncia – con la sola presenza – l’ingiustizia del non potersi sfamare nel Paese in cui si è nati e cresciuti! Ed è perché si contrasti questa colpevole indifferenza che il Vescovo Bonomelli scrive questa Lettera Pastorale.

Con un procedere espositivo tanto semplice quanto profondo, Bonomelli entra nel vivo della sua riflessione senza troppi giri di parole: “Soltanto un uomo senza cuore, senza filo di amore e di pietà pei fratelli sofferenti, che non sa cosa sia patria, può mirare con occhio indifferente quelle lunghe file di vagoni trasportanti a Genova tante famiglie dei nostri sì buoni e sì laboriosi contadini.”.

Bonomelli vuole che chi legge la sua Lettera Pastorale prenda coscienza che gli italiani che alla fine del XIX secolo subiscono la scelta di emigrare, sono “persone bisognose di tutto” e soprattutto che sono “famiglie obbligate a partire e impotenti a partire”. Queste persone Bonomelli le ha viste con i suoi occhi; le ha incontrate, ascoltate, “annusate”, consolate e con molti di loro (e per molti di loro!) ha pianto, si è commosso, si è indignato e si è interrogato – come vescovo, come prete, come cristiano e come cittadino italiano – sul come arginare, fermare e contrastare quel mare di sofferenza generata dall’ingiustizia e dall’incapacità – da parte della Politica – di governare la triste realtà (per tutti: per chi parte e per chi resta!) dell’emigrazione.

Queste persone sospese tra la disperazione ed il sogno di un riscatto irraggiungibile, Geremia Bonomelli prima le ha accompagnate ai porti nazionali di partenza (soprattutto Genova), dopo – però – è andato a cercarle, a visitarle e a incontrarle nei loro diversi siti di arrivo e di sistemazione più o meno precaria. Per scoprire che molti di loro hanno sì viaggiato, ma portando con sé la loro miseria per ritrovarsi nuovamente “gittati” come stracci: questa volta, però, in terra straniera.

Per chi è partito, ma soprattutto per chi è rimasto Bonomelli ha deciso di scrivere questa Lettera: per sollevare quel velo di indifferenza che ogni processo migratorio genera, per chiedere – a Governanti e politici – l’impiantarsi di politiche capaci di costruire giustizia e per liberare l’emigrare dalla costrizione della necessità, della miseria e dall’obbligo di dover partire per non morire di fame.

 

Bonomelli non è disturbato dal fatto che la sua Lettera Pastorale scritta in occasione dell’“avvicinarsi della Quaresima” tocchi e tratti un tema apparentemente laico come l’emigrazione. Il suo pensiero, al proposito, è chiaro: “Dunque, Parroci, Sacerdoti e laici cattolici, usciamo dal tempio, dalle sagrestie, gittiamoci in mezzo al popolo: ricordiamogli i suoi doveri, ma non passiamo sotto silenzio i suoi diritti: sarebbero due misure. Diciamogli che deve ubbidire, rispettare i padroni, vivere onestamente, amare il risparmio, ma che ha diritto di vivere del suo lavoro. Sull’arena delle lotte feconde, delle opere generose, Sacerdoti e laici!”.

 

Siamo in possesso di un ulteriore dato interessante a proposito del Vescovo di Cremona e del suo instancabile adoperarsi per portare sollievo agli italiani emigrati: Bonomelli ha scelto di partecipare, come relatore e a Torino, all’Esposizione Generale Italiana che si tenne nel 1898 (da aprile ad ottobre) in una sezione della manifestazione dedicata agli italiani all’estero. Il perché del suo presenziare ad un simile evento lo dichiara lui stesso:

 

«Un Vescovo, che tiene una conferenza nelle sale della Esposizione in Torino! È veramente cosa alquanto nuova e strana in Italia e ai nostri tempi, e forse a taluno può sembrare più che nuova e strana; me ne rendo troppa bene ragione […] Quale lo argomento, che intendo trattare? Il fine, come l’argomento, che tolgo a svolgere, è santo come santa è la carità verso i fratelli sofferenti; santo adunque è il luogo, santo il fine, santo il soggetto; […] Il soggetto lo conoscete, ve l’hanno pubblicamente annunziato: la Emigrazione. È un soggetto della più alta importanza attuale sotto tutti i rispetti, soggetto del quale mi sono occupato con qualche diligenza e con amore. È vastissimo, è il tempo concessomi è breve […]».

 

Il fatto che un Vescovo della Chiesa cattolica si rechi, a Torino, per partecipare come oratore ad un Evento nato per celebrare il cinquantesimo anniversario dello Statuto Albertino, è – indubbiamente – un fatto anomalo, innovativo e profetico. È anche il segno e la conferma che Bonomelli dice ciò che fa e pratica ciò che predica! Anche perché il Vescovo di Cremona ha sempre chiesto a preti e ai laici cattolici di farsi trovare in prima fila e in ogni ambiente quando è in gioco il pubblico interesse e quando si è alle prese con iniziative che rimandano alla giustizia: “Io vorrei che non ci fosse una sola opera buona di pubblico interesse, un’opera caritatevole, che non fosse iniziata dal Parroco e dal Prete, od almeno da loro aiutata.”.

E in continuità con questo insegnamento Bonomelli aveva scritto, due anni prima e nella sua Lettera Pastorale: “non dimentichiamo, che se l’uomo è creato per la vita futura, è creato anche per la presente, sia pur breve il suo stadio: ha l’anima, ma anche il corpo: ricordiamoci che la terra è il punto d’appoggio per dare la scalata al cielo. Non dimentichiamo che l’uomo ha un corpo, che ha bisogno di pane, di vesti, di tetto, e ha diritto di avere ciò che gli è necessario. Se noi non mostreremo d’aver cura di tutto ciò che appartiene al corpo, egli non si curerà di ciò che noi gli diremo quanto all’anima.”.

 

Una Lettera Pastorale da leggere e da conoscere, ci siamo detti come casa editrice dopo averla conosciuta grazie all’infaticabile lavoro di Gian Carlo Perego, che, in qualità di Direttore Generale della Fondazione Migrantes non perdeva occasione di presentarla sugli strumenti editoriali della Caritas e nei tanti convegni a cui ha partecipato per sensibilizzare sulle tematiche dell’emigrazione italiana di ieri e dell’immigrazione in Italia di oggi.

    

Il titolo per questa pubblicazione (che tiene insieme la Lettera Pastorale di Geremia Bonomelli con altri autorevoli e interessanti testi), non lo abbiamo scelto.

Si è imposto. Con immediatezza e leggerezza: Perché Gittati ci sembrava categoria perfetta per descrivere chi è partito ieri dall’Italia e chi – in questi decenni – ha raggiunto il nostro Paese.

    

Ma perché – qualcuno ci ha domandato – scegliere di pubblicare un testo così datato nel tempo e scritto con un linguaggio che in alcuni passaggi si presenta come superato e in altri sembra persino sbagliato? Bonomelli, per fare un solo esempio, scriveva Parrochi, con l’acca ed è solo per evitare “discussioni” con il correttore automatico che abbiamo scelto di formulare il termine con le regole della grammatica odierna. Perché parlare o documentare l’emigrazione italiana del fine ‘800 quando oggi sembra decisamente più urgente prestare attenzione all’immigrazione che, da decenni ormai, arriva sul nostro Paese?

Perché al di là delle diversità che caratterizzano i due fenomeni, tra queste due pagine di storia – l’emigrazione italiana e l’immigrazione in Italia – ci sono poche differenze e tante, forse troppo, sovrapposizioni.

 

Come dimostrano molto bene i contributi di Don Davide Schiavon, Direttore Caritas Diocesana di Treviso e di Sergio Durando, Direttore dell’Ufficio Pastorale dei Migranti della Diocesi di Torino, il solo modo per capire il presente è quello di non chiudere gli occhi del cuore, della memoria e della storia a quanto abbiamo appena vissuto. E viceversa: l’ascolto del passato e la documentazione che ci proviene dalle sofferenze di ieri (e dall’esempio di chi, prima di noi, ha speso la sua vita per saldare Terra e Cielo), ci deve rendere determinati e decisi nel contrastare – nel nostro oggi – quello strisciante e a volte esplicito razzismo che continua a crescere nel nostro contesto sociale e dimostra che ci siamo resi disponibili a barattare la libertà in cambio di una illusione di sicurezza che non esiste senza concreti percorsi di accoglienza e di integrazione per chi –proveniente da altri Paesi e da altre cultura – convive con noi.

 

Ieri i gittati sulle strade del mondo eravamo anche noi, in quanto italiani ed emigrati.

Oggi i gittati in Italia sono altri. Alcuni immigrati sono nascosti nelle nostre case come infaticabili badanti; altri sono mimetizzati in quei campi in cui gli italiani non vogliono più recarsi senza però rinunciare a gustare i frutti di quella terra che altri lavorano; altri sono invisibili perché dentro le fabbriche, le fonderie o in quelle attività produttive che sono reputate pericolose e che necessitano di manovalanza disposta a rischiare la vita per un salario che in nessun modo remunera quel rischio. Le due parti del volume sono perciò le due facce della stessa medaglia: un’unica realtà che racconta processi avvenuti in epoche diverse, ma sempre con le medesime sofferenze, le uguali tribolazioni e le stesse sempre attuali ingiustizie.

 

 

Ma c’è una ragione in più che giustifica questa impresa editoriale.

Nell’ultima domenica di settembre 2021 si terrà, a Torino, la 107° GIORNATA MONDIALE DEL MIGRANTE E DEL RIFUGIATO (fino al 2018 celebrata nel mese di Gennaio, nella seconda domenica dopo l’Epifania).

Il fatto che questa Celebrazione sia giunta alla sua 107ma edizione, è il segno – più eloquente di tanti discorsi – che la decisione di celebrare questa Giornata è nata, nel 1914, per portare attenzione, solidarietà e aiuto agli italiani sparsi nel mondo e “obbligati a partire” anche se “impotenti a partire”.

E se oggi la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato ha – per la chiesa cattolica – un respiro mondiale, è anche perché ieri i nostri italiani sono stati “gittati” nel mondo ed hanno – prima di molti nostri immigrati – fatto l’amara esperienza del subire una emigrazione che non sempre o quasi mai ha fatto incontrare la Terra Promessa.

Accanto alla Lettera Pastorale di Bonomelli e ai preziosi contributi di Don Davide Schiavon di Treviso e di Sergio Durando di Torino presentiamo perciò anche il Messaggio di Papa Francesco per questa Giornata. Il titolo è eloquente:

 

Come Gesù Cristo, costretti a fuggire.

Accogliere, proteggere, promuovere e integrare gli sfollati interni.

 

Quattro pagine di intesa bellezza che completano il testo e che ci ricordano, usando le parole di Papa Francesco, che:

 

“Quando si parla di migranti e di sfollati troppo spesso ci si ferma ai numeri. Ma non si tratta di numeri, si tratta di persone! Se le incontriamo arriveremo a conoscerle. E conoscendo le loro storie riusciremo a comprendere. Potremo comprendere, per esempio, che quella precarietà che abbiamo sperimentato con sofferenza a causa della pandemia è un elemento costante della vita degli sfollati.”.

 

E con la semplicità che contraddistingue il profetico magistero di Papa Francesco, ci viene indicata la strada che porta alla giustizia e che ci aiuta ad incontrar la nostra libertà e la liberazione di chi cammina con noi:

  • Conoscere per comprendere;
  • Farsi prossimo per servire;
  • Ascoltare per riconciliarsi;
  • Condividere per crescere;
  • Promuovere per coinvolgere;
  • Collaborare per costruire.

 

Una rapida scheda sull’emigrazione della fine ‘800 a cura di Luca Tallone conclude il libro. Mentre tocca a don Floriano Scolari, Parroco e teologo della Diocesi di Cremona e al suo Vescovo, Monsignor Antonio Napolioni (successore di Geremia Bonomelli) aprire il volume, presentare la Lettera e invitare alla lettura.

Un cordiale grazie a tutti coloro che ci hanno incoraggiati e sostenuto in questa impresa editoriale.

 

 

Post scriptum:  Chi volesse acquistare il libro mi contatti telefonicamente (3332139029). Ne ho ancora diverse copie a disposizione  (a prezzo dimezzato:  5,00 euro ).

 

                                                                                                             don Mario

 

[1]Mentre che scrivo ricevo lettere da Smirne, che mi annunziano trovarsi colà 8.000 operai italiani, accorsivi pei lavori della ferrovia, che traversa l’Asia Minore. Il Governo Ottomano, travolto nella crisi, che tutti conoscono, ha sospeso i lavori; ed ecco quegli 8.000 operai gittati sul lastrico, senza pane, senza tetto, senza danaro per ripigliare la via d’Italia, erranti per le vie di Smirne, e chiedenti un tozzo di pane.”.