Riccardo Larini “La guerra sta causando indicibili disgrazie. Il corpo di Cristo, la chiesa, soffre e piange. L’umanità nel suo bisogno grida: Signore, fino a quando? Solo la storia potrà svelare il groviglio di cause sottostanti e attive che si sono accumulate nel corso del tempo e che hanno portato alla rottura della pace. Dio solo vede e giudica gli intenti e i pensieri del cuore. Noi, servitori della chiesa, rivolgiamo a tutti coloro che hanno potere o influenza in materia un accorato appello a mantenere seriamente davanti ai loro occhi la pace, affinché presto cessi lo spargimento di sangue.” L’appello dei padri dell’ecumenismo Parole che potrebbero suonare molto attuali, e che invece risalgono al novembre del 1914. All’epoca, un gruppo di leader cristiani guidati dal neoeletto arcivescovo luterano di Uppsala, Nathan Söderblom, cercò inutilmente con un appello che iniziava con queste parole di convincere i capi delle chiese di ogni denominazione, presenti nei paesi che da poco avevano avviato il primo conflitto mondiale della storia, ad adoperarsi per la pace in nome della fede cristiana. L’incapacità delle chiese di fungere allora da promotrici della pace tra i popoli fu tuttavia una delle matrici fondamentali del futuro movimento ecumenico. Al termine della spaventosa carneficina rappresentata dalla prima guerra mondiale, infatti, crebbe notevolmente il numero di leader cristiani attivamente dediti alla pace e sorsero i movimenti “Vita e Azione” e “Fede e Costituzione”, che nel 1948 confluiranno nel Consiglio Ecumenico delle Chiese. I progressi del dialogo tra le chiese I tre pilastri dell’azione congiunta tra confessioni cristiane intrapresa con forza dopo la seconda guerra mondiale sono stati, come è noto, pace, giustizia e salvaguardia del creato. Fino a una trentina d’anni fa la forza propulsiva del movimento ecumenico pareva tale da far sembrare le chiese capaci di andare controcorrente rispetto al mondo. Se infatti negli anni Venti del secolo scorso il movimento ecumenico si era sviluppato sulla scia del movimento secolare che aveva condotto alla nascita della Società delle Nazioni prima e quindi dell’ONU, i progressi nel dialogo tra cristiani erano proseguiti poi ben oltre l’epoca generalmente piena di ottimismo degli anni Cinquanta e Sessanta, conseguendo anzi i loro risultati più significativi addirittura negli anni Ottanta del Novecento, sia all’assemblea di Lima di Fede e Costituzione, sia nei molti dialoghi bilaterali intessuti dalla chiesa cattolica con ogni altra confessione cristiana. Incapaci di abbattere l’inimicizia tra i popoli A partire dalla fine degli anni Ottanta, però, la tendenza al rafforzamento delle identità nazionali seguita al crollo dei regimi dell’Est europeo e alla pessima gestione del periodo post-guerra fredda da parte del mondo occidentale (inebriato solo dalla prospettiva di un allargamento a Est dell’economia di mercato), ha gradualmente travolto gran parte delle chiese cristiane, dapprima in Oriente e quindi anche in Occidente, e ci ha restituito la triste immagine di un cristianesimo incapace di essere fedele alla sua vocazione più fondamentale, ovverosia quella di testimoniare un amore capace di abbattere le barriere dell’inimicizia tra le persone e tra i popoli, di essere l’incarnazione del mandatum novum, dell’irrinunciabile non violenza dei discepoli di Gesù di Nazareth. Ancora una guerra santa? Non è stata perciò una sorpresa che, allo scoppio delle ostilità tra Mosca e Kiev, i leader cristiani di quelle terre abbiano rispolverato il triste armamentario retorico della guerra santa, che si pensava (o almeno si sperava) fosse ormai una reliquia del passato in ambito cristiano. Così il metropolita Epifanij, primate della Chiesa ortodossa d’Ucraina (staccatasi nel 2019 dalla Chiesa ortodossa ucraina, chiesa autocefala rimasta invece in comunione col Patriarcato di Mosca), ha immediatamente dichiarato che il compito primario dei cristiani ucraini era “respingere il nemico, difendere la patria, il futuro dell’Ucraina dalla tirannia dell’aggressore”, mentre il suo omologo greco-cattolico, l’arcivescovo maggiore Svjatoslav Sevchuk, oltre a definire “sacro dovere di ciascuno difendere la patria … dal nemico fraudolento che ha invaso il suolo ucraino” si è spinto ad affermare: “La vittoria dell’Ucraina sarà la vittoria della potenza di Dio sulla bassezza e l’insolenza dell’uomo”. Una guerra senza giustificazioni Quanto al leader delle chiese di matrice russa o a maggioranza russofona, la reazione è stata maggiormente differenziata. Il patriarca di Mosca Kirill, sulle prime è parso tentennare e non schierarsi, ma alla fine ha fatto ricorso alla dottrina della “guerra giusta” per prendere posizione a favore della Russia e difendere apertamente e reiteratamente l’operato di Vladimir Putin. Molto più onorevole, invece, è stata fino ad oggi la posizione ufficiale della Chiesa ortodossa ucraina (tuttora in comunione, ancorché molto labile, con il patriarcato di Mosca), che ha costantemente sostenuto, per bocca del suo primate, il metropolita Onufrij, la necessità per i cristiani di “fermare la guerra fratricida”, in quanto “una guerra simile non ha giustificazione né per Dio né per l’uomo”, e che in nome di una ricerca della pace è arrivata a porsi in rotta di collisione con Kirill a partire dal maggio del 2022 (malgrado le autorità ucraine e il presidente Zelenski abbiano adottato a più riprese iniziative legislative e politiche tese a promuovere un’unione forzata – secondo alcuni una vera e propria liquidazione – della chiesa di Onufrij con la Chiesa ortodossa d’Ucraina guidata da Epifanij). Le difficoltà del campo riformato e cattolico Al di fuori della Russia e dell’Ucraina, i leader delle chiese europee non hanno generalmente brillato per limpidezza evangelica. Non pochi leader appartenenti alla galassia delle chiese evangeliche e riformate hanno speso pochissime parole in favore della pace, sostenendo invece la tesi “bonhoefferiana” o addirittura “gandhiana” dell’autista impazzito (Putin) che andrebbe fermato anche a costo di usare la violenza, dando quasi per scontato che vi siano circostanze in cui sarebbe necessario schierarsi anche militarmente da una parte per promuovere il bene e testimoniare il vangelo. Ci sono stati infine non pochi intellettuali cristiani – come il per molti altri versi ottimo Vito Mancuso in Italia – che hanno cercato addirittura di dire che la non violenza non avrebbe radici in Gesù di Nazareth. Pur non giungendo a tali estremi, anche iniziative lodevoli come quelle interreligiose promosse dall’ex arcivescovo di Canterbury Rowan Williams e il ministro generale dei Frati Minori, Massimo Fusarelli, hanno sì cercato di promuovere la pace in nome del vangelo, ma escludendo a priori la possibilità di intavolare un dialogo con qualsiasi leader religioso sensibile alle possibili ragioni della Russia e del suo presidente. Infine, la stessa azione di papa Francesco ha risentito in maniera molto forte del desiderio di non entrare in conflitto con le posizioni dei leader cattolici ucraini e con quelli del mondo “occidentale”. In tal modo, pur avendo dichiarato a più riprese di voler visitare sia Kiev sia Mosca, al momento in cui viene chiuso questo, articolo – cioè a quattordici mesi dallo scoppio della guerra – in realtà Francesco non ha ancora compiuto quel passo che, oltre ad avere un peso politico non indifferente, sarebbe decisivo dal punto di vista dell’annuncio evangelico. Due domande In conclusione, vorrei porre due domande fondamentali, che sono le due facce di una stessa medaglia: sebbene sia vero che il cristianesimo non porterà mai il regno di Dio sulla terra (quando ha cercato di farlo, ha sempre compiuto disastri…) e che permarrà sempre un certo iato tra ciò che i cristiani realizzano concretamente nella storia e gli ideali evangelici, è accettabile ridurre l’azione cristiana a una pura e semplice valutazione della migliore strategia politica da adottare? Pur dovendo incarnare la fede nella storia, è possibile comprometterne l’elemento più centrale, ovverosia il fatto che l’amore per il nemico, la ricerca pacifica e non violenta della riconciliazione, è esattamente ciò che Dio ha compiuto nei nostri confronti (cf. Rm 5,10), l’essenza stessa del vangelo? Ai lettori (oltre che ai posteri) l’ardua sentenza. Neanderthaliani dello spirito Da parte mia, vorrei rispondere citando le parole di un grande cristiano russo, Aleksandr’ Men, ucciso barbaramente il 9 settembre del 1990 su ordine del KGB perché uomo di cultura e soprattutto di una fede non facilmente piegabile agli interessi di alcun singolo o comunità: “Gesù di Nazareth invita gli esseri umani a realizzare l’umanità secondo Dio. Bisogna essere assai limitati per ritenere che il cristianesimo si sia compiuto, che sia stato pienamente realizzato, nel IV secolo, secondo alcuni, nel XIII, secondo altri, nel XVI, secondo altri ancora. In realtà il cristianesimo ha mosso solamente i suoi primi passi, e sono stati passi timidi nella storia del genere umano. Molti insegnamenti di Gesù rimangono tuttora incomprensibili ai nostri orecchi. E di fatto, mentre la freccia scoccata dal vangelo ha come bersaglio l’eternità, noi siamo ancora dei neanderthaliani dello spirito”. L’attuale guerra tra Russia e Ucraina rappresenta sicuramente il ripetersi di errori e follie che, purtroppo, non cesseranno mai nell’umanità sino alla fine dei tempi. Ogni tentativo politico di risolvere il conflitto limitando al massimo le sofferenze può essere compiuto a prescindere dalle opinioni e gli interventi dei cristiani, semplicemente cercando di risvegliarsi dal sonno della ragione che sembra essersi impossessato dei leader coinvolti nella presente azione bellica, europei inclusi. Quello che però deve assolutamente cambiare è l’atteggiamento di chi si proclama cristiano. Siamo veramente dei neanderthaliani dello spirito, il cristianesimo, dopo duemila anni dai suoi esordi, è solo ai suoi inizi. Dobbiamo ancora una volta ricominciare, altrimenti renderemo veramente vana la vita e la morte di Gesù di Nazareth e il vangelo che ha predicato. Ricominciare dall’abc del vangelo è la triste e difficile eredità di questi ultimi maledetti mesi. Riccardo Larini Laureato in fisica matematica ha poi svolto studi teologici a Bose e a Cambridge. È specializzato nella formazione dell’identità cristiana nel primo secolo e nella storia e la teologia del dialogo ecumenico. Professionalmente si occupa di intelligenza artificiale applicata all’educazione. Autore del volume, Bose. La traccia del Vangelo (2021) [Pubblicato il 13.5.2023]