Preghiere poesie

Economy of Francesco

Papa Francesco ad Assisi “Economy of Francesco”

Padre, Ti chiediamo perdono per aver ferito gravemente la terra, per non aver rispettato le culture indigene, per non avere stimato e amato i più poveri, per aver creato ricchezza senza comunione. Dio vivente, che con il tuo Spirito hai ispirato il cuore, le braccia e la mente di questi giovani e li hai fatti partire verso una terra promessa, guarda con benevolenza la loro generosità, il loro amore, la loro voglia di spendere la vita per un ideale grande. Benedicili, Padre, nelle loro imprese, nei loro studi, nei loro sogni; accompagnali nelle difficoltà e nelle sofferenze, aiutali a trasformarle in virtù e in saggezza. Sostieni i loro desideri di bene e di vita, sorreggili nelle loro delusioni di fronte ai cattivi esempi, fa’ che non si scoraggino e continuino nel cammino. Tu, il cui Figlio unigenito si fece carpentiere, dona loro la gioia di trasformare il mondo con l’amore, con l’ingegno e con le mani. Amen.

XXVI DOMENICA ANNO C

XXVI DOMENICA  ANNO C con preghiera dei piccoli

Dal Vangelo secondo Luca 16,1-13

  «C'era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. 20Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, 21bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. 22Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. 23Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. 24Allora gridando disse: "Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma".25Ma Abramo rispose: "Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. 26Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi". 27E quello replicò: "Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, 28perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch'essi in questo luogo di tormento". 29Ma Abramo rispose: "Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro".30E lui replicò: "No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno". 31Abramo rispose: "Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti"».

La parabola dell’uomo ricco che banchetta ogni giorno ignorando la presenza del povero Lazzaro seduto alla sua porta, è stata raccontata da Gesù per aiutare chi lo ascolta a cambiare stile di vita e a impegnarsi nell’unico tempo che ci è dato di vivere: il presente.

Lungo la storia, però, abbiamo spostato l’insegnamento di Gesù dal presente al futuro per costruire quell’al di là pensato come il luogo della ricompensa o del castigo della vita terrena. Se sei stato povero avrai retribuzioni gratificanti una volta morto e se invece hai vissuto da ricco e da avaro indifferente nei confronti dei deboli, avrai la “giusta punizione”!

Gesù con questa parabola, però, non pensa al futuro. Ciò che per Lui conta è vivere bene l’unica vita che ci è stata donata e non trovarsi mai così soli da sperimentarsi senza aiuti. Certo, il fatto che “l’aiuto” che tutti cerchiamo ci arrivi dal “povero” che vivacchia vicino a noi, è elemento che spiazza e che disorienta il lettore di ieri come quello di oggi.

E si notino alcuni particolari. Il ricco è senza nome. Si sa però come è vestito (abiti di porpora e di lino finissimo) e veniamo informati che ogni giorno mangiava più del necessario per vivere. Del povero non si conosce nulla (perché è in quella condizione, da dove proviene, etc.) sappiamo però che la miseria che lo circonda non gli ha tolto la dignità di figlio di Dio e che il suo nome è Lazzaro.  Che significa “Dio aiuta”. E l’insegnamento è tutto qui: Dio non ha creato la povertà e l’ingiustizia. Queste sono generate dall’ingordigia di chi accumula e di chi trattiene per sé quanto appartiene anche ad altri.

Il Dio di Gesù ha però scelto di affidare ai “poveri” (letteralmente ai “piegati” e “curvi” nell’atto del mendicare) che ci sono vicini l’affascinante compito dell’aiutarci a traghettare la nostra vita dall’egocentrismo all’altruismo, dall’ingiustizia a pratiche di giustizia. Al ricco della parabola non interessa questo tipo di “aiuto”. A lui bastano abiti lussuosi e continui banchetti. E dell’aiuto che proviene da Lazzaro è convinto di non averne bisogno. Chissà se quando san Luca scrive che Erode, durante il processo farsa a Gesù, “gli mise addosso una splendida veste” (Lc. 23,11) aveva in mente questa parabola. Un dato però è certo: quando il mondo dei ricchi usa gli abiti eleganti per nascondere i poveri, è il segno evidente che si rifiuta l’aiuto che Dio ci mette accanto per contrastare l’ingiustizia che ci rovina.

Per la nostra attualità. Gli squilibri tra Nord e Sud del mondo sono visibili ad occhio nudo e sono conosciuti anche dai bambini. Così come è risaputo che la quasi totalità dei nostri indumenti è prodotta in Cina, in India e in quelle parti del mondo dove la mano d’opera costa quasi nulla per garantire profitti stratosferici al mondo della moda (che solo in Italia fattura più di cento miliardi all’anno).

I poveri che tante volte ci disturbano sulle nostre strade non sono- però – presenze da respingere o da rimandare al Paese d’origine (anche perché la casa non ce l’hanno), ma coloro che ci aiutano a vivere (penso alle nostre badanti, ai lavoratori stagionali nell’agricoltura, nel mondo dell’edilizia e in tutti quei lavori che non vogliamo più fare) e coloro che ci aiutano a ritrovare la strada di Dio, di noi stessi e della bellezza di un vivere per gli altri. Che Dio abbia bisogno di noi per soccorrere i poveri è decisamente bello; ma che noi abbiamo bisogno dei poveri per imparare la grammatica della vita e di Dio, è affascinante. Interessante anche il fatto che quando il ricco capisce che ha impostato male la sua vita vorrebbe aiutare e avvisare “solo” i suoi parenti (simpatico scoprire che l’avarizia rende chiusi e gretti anche da morti!), ma tra i vivi e i morti è cambiato il modo di comunicare. La sola maniera che ci è data per capire la logica della vita buona è quello di “ascoltare” la Parola di Dio e di accorgersi di chi, vicino a noi, è pronto ad aiutarci con la sua povertà.

Considerata la giornata elettorale, preghiamo anche perché chi oggi viene eletto usi la responsabilità (alta) che gli sarà affidata per servire il nostro Paese e per aiutare il mondo intero a trovare – finalmente –le strade della Pace, della giustizia e della solidarietà verso i tanti Lazzaro che ci sono accanto.

Buona domenica.

                                                                       Preghiera dei piccoli

Caro Gesù,

                      a tavola parlavamo della parabola che oggi abbiamo pregato in chiesa e mia nonna l’ha chiamata: “la parabola del ricco epulone”. Un’espressione che mi ha fatto ridere perché non l’avevo mai sentita.

Lei mi ha spiegato che “epulone” vuole dire “mangione” (uno che organizza sempre banchetti e feste) e che non accorgersi che davanti a casa sua c’era un povero di nome Lazzaro, lo ha fatto vivere male, triste e sempre solo.

Gesù te lo chiedo con insistenza: aiutami a capire che i poveri che vivono vicino a noi sono come Lazzaro: “l’aiuto che Tu ci dai” per non restare chiusi nel nostro egoismo.

E come dice mia nonna: insegnami a vedere e ad aiutare soprattutto i poveri che non sanno chiedere aiuto. Sono loro i primi che dobbiamo aiutare.

Grazie Gesù.

 Gesù oggi in Italia si vota. Aiuta chi viene eletto a servire il nostro Paese.

XXV DOMENICA ANNO C

                            XXV DOMENICA ANNO C  con preghiera dei ragazzi        

 Dal Vangelo secondo Luca 16, 1- 13  

In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”. L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”. Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”. Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne. Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».

 Domenica scorsa il Vangelo di Luca ci ha presentato la parabola del figlio minore che prima chiede al padre la sua parte di eredità, poi  sperpera quanto gli è stato donato e – mosso dalla fame – rientra in sé stesso e decide di tornare dal padre. Oggi sempre Luca ci presenta un’altra parabola: quella dell’amministratore disonesto che – proprio come ha fatto il cosiddetto figliol prodigo – sperpera i beni del suo padrone e, convocato per rendere conto delle sue malefatte, rientra in sé stesso e decide di cambiare vita.

Lo schema è identico. E perché al lettore non sfugga questo particolare, l’evangelista utilizza gli stessi termini (evidenziati in neretto). Ed il messaggio è chiaro: trovarsi alle prese con l’errore, con la fragilità e con il peccato, non è eventualità rara e che riguarda sempre e soltanto gli altri. Figliol prodigo, fratello maggiore e amministratore disonesto sono le cifre simboliche di tutti noi. Alle prese con pensieri grandi e – allo stesso tempo – impantanati in quelle pratiche molto meno nobili che impastano il nostro vivere con egoismo, avarizia, ingiustizie e altre fragilità.

San Luca però non è un sociologo. Non gli interessano analisi raffinate sui mali della società e sulle ombre che appartengono al cuore umano. Ciò che sta a cuore all’evangelista è comunicare al suo lettore che per ognuno di noi c’è la buona notizia del Dio di Gesù che non condanna e che aiuta a cambiare strada. Proprio come hanno fatto figliol prodigo e amministratore disonesto. Tutto ciò che dobbiamo fare è prendere coscienza che il “peccato è accovacciato alla porta del nostro cuore” (Gen. 4,7) e – con l’aiuto del Vangelo – “rientrare in noi stessi” e “decidere” di non farlo entrare in noi o – se è già entrato . espellerlo e gettarlo fuori.

Senza il confronto con il Vangelo, il grande rischio è quello di autogiustificarsi e di pensare di essere sempre nel giusto, di prendere le distanze da chi sbaglia, di diventare giudici spietati contro gli altri e di non accorgersi che quote di peccato sono presenti anche in ciascuno di noi. Ed è esattamente ciò che accade ai farisei che non vogliono in nessun modo confrontarsi con Gesù (“I farisei, che erano attaccati al denaro, ascoltavano tutte queste cose e si facevano beffe di lui. – Lc. 16,14). Ma come ci aiuta il Vangelo di Gesù? Ricordandoci che il senso del vivere è dato dallo “spendersi per gli altri” mentre il denaro ci immette – spesso in modo impercettibile – nella tentazione dell’accumularlo, del contarlo, del nasconderlo e  del vivere solo per sé stessi. Gesù – ci dice l’evangelista – non condanna il denaro, ma la “ricchezza accumulata” definita da Gesù stesso “ricchezza disonesta”.

Quando qualcuno nasconde ciò che ritiene “suo” e non lo condivide con chi ha nulla, entra però nella spirale viziosa della solitudine che rende tristi. Figliol prodigo e amministratore disonesto hanno deciso di vivere pensando solo a sé stessi. Uno è finito a parlare con i maiali che doveva custodire; l’altro sulla soglia del mendicare. Per entrambi però – ci dice san Luca – la mano tesa di Gesù c’è. Ed  è così forte da aiutarli a cambiare vita. Grazie al confronto con il Vangelo, il Dio di Gesù ci strappa dal nostro egoismo e ci libera dalla tentazione dello “sperperare” la nostra vita per insegnarci a “spendere” i nostri giorni per fare quel bene che ci fa stare bene.

Mi domando spesso: chi insegna ai nostri giovani a fare progetti per il futuro in vista del bene altrui e non inseguendo solo il successo personale e/o della carriera? Il pensare solo a sé stessi ruba però il futuro ai nostri giovani e li carica di ansie inutili e dolorose.

 Si pensi al voto di domenica prossima. Se il candidato politico pensa “solo”  al suo risultato personale  e non si interessa del bene comune; se l’elettore si fissa sui “favori” che può ricevere da chi sceglie e non guarda al bene dei più deboli, in un attimo abbiamo “sperperato” il valore della democrazia che è stata conquistata a caro prezzo.

Ciò che rende la nostra esistenza solida e meritevole di essere vissuta non è la “mia” ricchezza da accumulare, nascondere e contare, ma quanto di aiuto ho portato – con il mio servizio, con i miei studi e con la mia professionalità – ad un mondo che, dopo di me e grazie anche a me, è diventato migliore  di come l’ho trovato.  Parafrasando John Kennedy, non chiediamoci cosa i governanti possono fare per noi, domandiamoci piuttosto che cosa possiamo fare noi perché il nostro Paese imbocchi la strada della giustizia, della bontà e della libertà. Ecco la Buona Notizia di questa domenica: possiamo cambiare e stare meglio. Ma dobbiamo farlo subito. Senza aspettare un domani che spesso non arriva.

Buona domenica.

 

                                                          Preghiera dei piccoli

Caro Gesù,   l’amministratore di questa parabola vive esattamente come il figliol prodigo: sperpera tutto ciò che ha e pensa solo a sé stesso. Per questo viene chiamato “disonesto”. E non appena si accorge che ha fatto solo pasticci, anche lui “parla da solo”, si domanda come uscire dagli errori fatti e decide di cambiare modo di vivere (e chiede meno del dovuto a quanti gli devono dei soldi). Gesù hai ragione Tu: usare la ricchezza solo per sé, rende soli e tristi. Tu aggiungi: “disonesti”.

Io non ho soldi, ma voglio usare tutto ciò che so fare per aiutare gli altri. E spero che anche di me – da grande – chi mi incontra dica “Quella è una persona onesta”, come dicono di mio nonno che è sempre in giro ad aiutare gli altri.  Sono 240 milioni i bambini che, nel mondo, non possono iniziare la scuola per causa di guerre e povertà.  Gesù oggi ti prego anche per loro.

XIV DOMENICA ANNO C

XIV DOMENICA  ANNO C con preghiera dei piccoli

Dal Vangelo secondo Luca 15, 1 - 32

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.

Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».

Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”.

Lo schema mentale degli scribi e dei farisei che mormorano contro Gesù perché permette anche a pubblicani e peccatori di avvicinarlo e di ascoltarlo, è molto semplice. Per loro ci sono da una parte i “buoni” (che loro chiamano i “giusti”) e dall’altra parte i “cattivi” (definiti anche impuri e/o peccatori). Mondi divisi che devono restare separati perché qualsiasi contaminazione con i “peccatori” rende “impuri” anche i giusti. Per questo criticano Gesù: perché con il suo intrattenersi con tutti senza mai badare a colpe o a condizioni sociali e religiose, aggredisce alla radice un baluardo fondamentale del loro pensiero religioso. Gesù – però – non rompe i principi di scribi e farisei per il gusto di opporsi alla loro scuola teologica. Semplicemente ha altri schemi mentali. Per Lui il mondo non si divide in “giusti” e “ingiusti” o tra “buoni” e “cattivi”. Ciò che “vede” Gesù osservando l’umanità che lo segue è la faticosa distinzione tra chi è “solo” e chi – al contrario – è immerso in una comunità che gli permette di stare nella gioia.

La parabola della pecorella smarrita diventa – così intesa – una forte provocazione per presentare al lettore del Vangelo un Gesù Pastore intenzionato a dare la vita perché nessuno si ritrovi così solo da vivere senza una comunità e, dunque, alle prese con lo star male generato dall’isolamento. Per Gesù è certamente “sola” la pecora che si è smarrita e che ha perso il contatto con il “suo” gregge. Ma sono “sole” anche le novantanove pecore che hanno perso una di loro (volutamente?) e che ora si ritrovano nel deserto senza pastore. Sola la pecora smarrita e sole le novantanove pecore lasciate nel deserto. Tutte senza pastore.

Una lucida descrizione della nostra condizione. Nella società liquida in cui viviamo siamo tutti alle prese con quella amara condizione che ci fa sentire soli: senza sostegni e senza vita comunitaria vera. Siamo sempre connessi, è vero. Ma è la conferma del fatto che siamo “soli” e lontani dalla gioia che cerchiamo. Sono soli i nostri ragazzi che si sono sbarazzati delle norme della morale sessuale dei loro nonni, ma che non hanno ancora raggiunta quella libertà affettiva e sessuale che immerge nella comunione (“Abbiamo tanta libertà sessuale noi giovani – dichiara Elisa 23 anni – ma siamo tutti alle prese con ansia, pastiglie, crisi di ogni genere e così soli da cercare aiuto dallo psicologo”). Si sente solo chi guarda al futuro. Si sente solo chi resta convinto che si stava meglio ieri (quando almeno i valori c’erano!). Soli i figli, soli i genitori. Soli gli anziani! Ma sono soli anche gli immigrati, i detenuti (che per rompere l’isolamento a cui sono condannati hanno iniziato lo sciopero della fame), chi è senza lavoro, etc. Solo e spaesato è anche chi, in questa confusa campagna elettorale in cui sembra dominare lo sparlare dell’altro anziché la presentazione dei propri programmi, non sa se votare e per quale forza politica esprimere una preferenza. Ha ragione Gesù. Il mondo non si divide in buoni e cattivi, giusti e ingiusti, puri e impuri. Siamo tutti un po’ l’uno e un po’ l’altro. La vera divisione che ci caratterizza è quella tra chi è solo e chi ha ritrovato il Pastore che rende possibile la comunione e la fraternità. A volte siamo soli e vagabondiamo per sentieri pericolosi; altre volte siamo in gruppo, ma nel “deserto”. Nell’uno e nell’altro caso siamo lontani dal Pastore che ci rende capaci di vivere quella fraternità senza la quale non c’è gioia. Abbiamo tutti bisogno di quel Pastore che si chiama Gesù e che ci consegna quel perdono senza il quale nessuno di noi esce dalle sue rigidità e dalle sue solitudini.

Lo stesso dicasi per i due fratelli della parabola che segue. Solo è chi ha sciupato i suoi averi ed è lontano da casa. Ma solo è anche chi – corroso dall’invidia – resta nei campi e non vuole prendere parte alla festa che è presente nella sua casa!

Due cose ci consegna oggi il nostro Buon Pastore: gioia e fraternità. Le due facce della stessa medaglia. Ma perché la fraternità ci immetta nella gioia vera che cerchiamo, dobbiamo lasciare che Gesù ci renda capaci di dare e di accogliere il perdono. Solo a queste condizioni avanza la Pace che non nasce da scontri armati sempre più sofisticati, ma solo dalla determinata disponibilità ad uscire dalla solitudine per ritrovare la bellezza dell’essere nuovamente insieme.

Buona domenica.

                                                                  Preghiera dei piccoli

Caro Gesù,

                     a volte mi sento la pecora perduta che Tu vai a cercare. E mi piace pensare che mi riporti dalle altre.

Altre volte invece so di essere una delle novantanove pecore che sono rimaste nel deserto e che non si accorge di quella scappata.

Una cosa però l’ho capita: siamo tutti senza Te. Tanto chi si perde quanto chi non si accorge di niente e resta nel gruppo a mormorare contro gli altri, sono soli.

Come i due fratelli. È solo chi se ne va e spreca tutto quello che ha ed è solo anche l’altro: quello che non rientra in casa ad abbracciare chi è tornato.

Gesù aiutami a capire che solo se restiamo insieme inizia la festa.

E grazie Gesù perché non giudichi nessuno, aspetti tutti e ogni volta che litighiamo ci vieni a cercare per aiutarci a fare pace.

 

 

 

XXIII DOMENICA ANNO C

XXIII DOMENICA  ANNO C con preghiera dei piccoli

 

Luca  14, 25 – 33  

In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».

È un tratto distintivo della Sua persona: Gesù non insegue il successo, non accarezza il consenso e non fa sconti alle tante persone che, con eccessivo entusiasmo, lo seguono. Alla “folla numerosa che andava con Lui” Gesù detta alcune richieste che apparentemente suonano come dure e forse come troppo severe. In realtà Gesù sta presentando le condizioni che immettono nella vita beata o – come diremmo noi – che rendono felici.

Vale la pena vederle da vicino. “Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, non può essere mio discepolo.”. Messaggio tanto duro quanto saggio che ricorda – a chi lo ascolta e dunque a tutti noi – che quando le relazioni all’interno della famiglia diventano un assoluto, si ammalano e rovinano l’esistenza di tutti. Lo vediamo in questa triste estate segnata anche da troppi femminicidi. Quando l’affetto diventa possessivo e segnato dal desiderio di controllo, l’altro non è mai amato, ma solo e sempre spiato, sorvegliato, inseguito e incatenato per garantire la sopravvivenza di chi dipende da lui. Amare vuole dire lasciare andare e generare libertà. E perché le nostre relazioni affettive escano dalle patologie di vincoli ammalati, Gesù si presenta come la cura che libera le nostre famiglie dal rischio di stare male al proprio interno perché troppo ripiegati su sé stessi. Come a dire: si può essere casa e famiglia senza solo e sempre litigare.

Seconda richiesta di Gesù: “Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.”. Espressione di non facile comprensione anche perché oggi – per fortuna – al condannato non è più chiesto di portare pubblicamente e sulla strada il legno della croce al quale dovrà essere appeso. Ai tempi di Gesù era però così (nefandezze dell’Impero Romano!). E proprio quel “passare in mezzo alla folla che disapprova il condannato”, è stato preso da Gesù come esempio per invitare chi lo segue a non avere paura di vivere valori che l’opinione pubblica non sempre approva. Lo sappiamo: non inseguire la carriera, il successo o non entrare sui sentieri dell’ambizione e dell’avanzare ad ogni costo (anche al prezzo di calpestare colleghi e fratelli), non è mai stato di moda o per le masse. La Parola di Gesù ci ricorda però che una nuova scala di valori – più umana – è possibile. E che stare dalla parte dell’onestà, del rispetto della legalità, della giustizia e della solidarietà è e resta il solo modo per vivere bene. Così come è possibile – con Lui – pensare alle proprie responsabilità come ad un servizio al prossimo e non come una scalata per conquistare il potere. Si, è possibile, dice Gesù, anche se si contro corrente e se si fa parte dei “pochi”.

Terza richiesta. “Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”. Anche perché dove è il tuo tesoro là è il tuo cuore. E se la vita ruota solo attorno ai soldi, ad accumulare ricchezze e a ingrandire il conto in banca, il povero cuore umano non ha grandi basi di appoggio! Il denaro desiderato e accumulato per sé stesso avvelena prima la vita di chi lo insegue e poi rovina le esistenze di chi litiga per accaparrarlo come eredità. E quanti ricchi infelici e schiavi del lavoro e dei soldi conosciamo! La richiesta di Gesù è liberante: usa il denaro, fallo “girare”, non lo sprecare, ma non lo accaparrare per il piacere di contarlo. Investi in bontà, in amore, in servizi ai più deboli, se vuoi essere felice.

“Ma come realizzare tutto questo programma?”, si domanda il lettore del Vangelo. E dentro la domanda c’è la consapevolezza che si sta delineando un cammino difficile. Non solo: con il passare del tempo cresce anche la coscienza che Gesù non è una “buona idea” che fa fine e non impegna; non è una moda passeggera e non può essere ridotto nemmeno ad un po’ di retorica su una solidarietà resa facile dagli slogan. Gesù è il volto di Dio, il nome del Padre e la visibilità dell’amore che ha assunto la forma dell’obbedienza a tutti noi. Il suo parlare “duro” è coerente, ma non vuole dire che la Sua proposta sia impossibile da realizzare. L’evangelista invita chi lo segue a non scoraggiarsi. A fermarsi. E a “sedersi” (proprio come chi calcola come costruire una torre e come fare per attuare una guerra lampo!). Il senso della sosta non è l’ozio, ma il solo modo per fare entrare in noi la Parola di Dio che se viene letta, assimilata, interiorizzata e “ruminata” si fa Parola orante che prega in noi e con noi. Gesù non ha mai proposto scorciatoie. La sua via è stretta e impervia. In comunità e con le giuste pause, però, è la sola strada che ci conduce alla felicità che troppe volte cerchiamo su autostrade a quattro corsie.

Buona domenica.

 

                                                                          Preghiera dei piccoli

Caro Gesù,

                      oggi mi chiedi tre cose:

la prima, non restare chiuso in famiglia e imparare a voler bene anche agli amici e a chi la vita mi mette vicino. Mi piace. Mi fa sentire grande.

La seconda. Non sognare di diventare famoso, ma spendere le mie energie per diventare buono e per aiutare chi ha bisogno di me. È davvero tanto bello.

La terza. Non impazzire per avere tante cose e non vivere per comprare, ma scoprire che c’è più gioia nel dare che nel ricevere. Su questo punto devo impegnarmi di più.

Grazie Gesù perché prima di riprendere la scuola ho bisogno di queste Tue lezioni!

E grazie anche perché mentre tutti corrono per fare prima e per fare sempre di più, Tu ci chiedi di “stare seduti” per pensare a quello che facciamo (e per scegliere di fare bene il bene!).

 

XXII DOMENICA ANNO C

XXII DOMENICA ANNO C  con preghiera dei piccoli

Luca 14, 1.7-14

 «Un sabato si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo. Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: "Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: "Cedigli il posto!". Allora dovrai con vergogna occupare l'ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va' a metterti all'ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: "Amico, vieni più avanti!". Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato". Disse poi a colui che l'aveva invitato: "Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch'essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti«Fratelli, non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile né a un fuoco ardente né a oscurità, tenebra e tempesta, né a squillo di tromba e a suono di parole, mentre quelli che lo udivano scongiuravano Dio di non rivolgere più a loro la parola» (Eb 12, 18s.).

 

L’insegnamento di Gesù che san Luca ci propone in questa ultima domenica di agosto si adatta molto bene al clima elettorale che stiamo vivendo. Al punto che possiamo provare ad applicare questa parabola  al nostro contesto di intensa campagna elettorale. “Diceva (Gesù) agli invitati una parabola notando come formulavano i loro discorsi elettorali: «Quando presenti il tuo programma politico, non parlare male degli altri, anche perché non sono nemici, ma semplici concorrenti che provano, come te, ad amministrare il “nostro” Paese. Non seminare odio e parla solo di te e di quello che sei intenzionato a realizzare. Ma non dire di più di quello che potrai fare, perché non succeda che un domani i cittadini ti chiedano di attuare quanto hai promesso e tu  non sei in grado. E non assicurare l’elettore che ti ascolta che sarai tu, domani, a governare  perché se vince un altro, dovrai cedergli il posto e restare fermo – con rabbia –  nel ruolo di chi deve fare opposizione.»”.

Gesù è esperto di umanità. E non sottovaluta (mai) quella che noi chiamiamo “buona educazione”. La quale non è mai solo “forma”, bon ton o formule da galateo. Nella buona educazione c’è anche – soprattutto – la “sostanza” di chi presta attenzione all’altro e di chi pratica delicatezza, umiltà, verità e gentilezza come stile ordinario del vivere e del dire (e così facendo prende le distanze da un modo di parlare gridato, offensivo e volgare).

Ma Gesù si spinge oltre la buona educazione nella sua parabola. La Sua richiesta di invitare al banchetto “poveri, storpi, zoppi e ciechi” (una precisa lista di categorie impure e a cui era impedito l’accesso al Tempio) diventa l’aiuto che lo scomodo Maestro ci consegna per educarci alla bellezza del donare e del servire e per riuscire – una volta per tutte – a tenere a bada la drammatica tentazione che abbiamo tutti di usare gli altri per fare carriera.

Non invitare gli amici ai banchetti che organizziamo ha il forte sapore simbolico dell’impedire che le nostre mani si muovano solo nella direzione del finto dare finalizzato, in realtà, al prendere (nella cena che ti “offro” ti chiedo il voto e questo ti autorizza a chiedermi “favori” che ci allontanano sempre più dallo spazio del dono, del servire e della libertà). Prendiamo l’esempio dei poveri che ci sono accanto. Penso agli immigrati a cui chiediamo di raccogliere pomodori e frutta di ogni specie (e meno male che lo fanno loro questo servizio!), ma guai se si fanno prendere dalla voglia di girare (in bici!) nelle nostre città!  Penso alle tantissime badanti che nel chiuso delle nostre case assistono giorno e notte i nostri cari anziani. Prima o poi vorranno una casa tutta loro e per la loro famiglia e saranno stanche di dormire nella stessa casa dove lavorano. Ma anche questa loro domanda (muta) facciamo finta di non ascoltarla. Penso a chi monta i ponteggi per le ristrutturazioni dei nostri edifici. Non ho mai visto – tra loro – un giovane italiano. Sono ragazzi immigrati dall’est o dall’Africa. Tutti. Sono contenti di lavorare per noi e non si risparmiano. E se le nostre case tornano come nuove (grazie anche ai tanti bonus che tutti conosciamo) è certamente anche merito loro. Ma non dobbiamo dirlo a voce troppo alta perché è una di quelle verità scomode che non piace a tutti.

Immigrati “usati” due volte: la prima per lo svolgimento della nostra vita sociale; la seconda per la nostra campagna elettorale:  per promettere – a chi ne ha bisogno, ma non li vuole vedere – che non saranno più permessi, sulle sponde italiane, arrivi di disperati che scappano da fame, carestie e guerre. Tra i poveri, però, non ci sono solo gli immigrati. Sono tanti anche gli adulti e gli anziani, italiani da generazioni, che si mettono in fila alle nostre Caritas per ricevere un pasto. Sono moltissimi i disabili lasciati soli. E sono tanti (troppi) anche i giovani senza lavoro che stanno male; gli adulti segnati da fallimenti affettivi che non hanno più casa e che non sanno dove o come chiedere aiuto; i detenuti alle prese con la disperazione (in questi primi otto mesi dell’anno 53 si sono suicidati nelle carceri italiane) che preferiscono togliersi la vita piuttosto che essere dimenticati da tutti.

Ma sia chiaro: la richiesta di Gesù è sempre “buona notizia”. Il che significa che chi invita poveri, storpi, zoppi e ciechi  alla sua mensa (un modo figurato per invitare tutti noi e le nostre politiche a non girarsi dall’altra parte in presenza di queste sofferenze) non fa solo del bene (un’opera buona), ma pone anche le premesse per diventare amico di Gesù e ritrovarsi “beato”, contento e – dunque – felice. L’eucaristia domenicale è proprio questo: il banchetto organizzato da Gesù che ci nutre e ci dà la forza di tenere a tavola con noi i “dimenticati” dal nostro egoismo e dalla politica malata: quella che insegue il potere e che dimentica il servizio.

Buona domenica.

 

 Preghiera dei piccoli

                                      Caro Gesù,

                      a casa mia quando c’è un pasto speciale, mamma e papà impiegano quasi più tempo per organizzare come e dove sistemare gli invitati a tavola che non per cucinare.  Sul segnaposto siamo noi bambini che dobbiamo scrivere il nome. Ma i posti li decidono solo loro, i grandi.

Oggi, dopo aver ascoltato questo Vangelo, ho pensato che anche Tu devi aver vissuto, da piccolo, quei pranzi  o cene con parenti e amici che non finiscono mai.

Per questo, da grande, hai cambiato lo stile delle feste. E ci chiedi di non diventare matti per i primi posti; di non litigare per dove stare seduti e imparare – invece – a stare vicino a chi capita.

Grazie Gesù perché ci ricordi che i soli “vicini” che possiamo scegliere sono quelli che stanno male.

E grazie perché ci chiami “Amici”. Voglio essere amico dei poveri e anche Tuo amico, Gesù.

XX DOMENICA ANNO C

XX DOMENICA  ANNO C  con preghiera dei piccoli

Luca 12, 49 - 53

 In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto! Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione. D’ora innanzi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre; si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera».

 

Dominare il fuoco e impedire che la fiamma diventi un incendio è – da sempre – una delle grandi sfide dell’uomo. In passato era più difficile. Oggi si sono fatti notevoli passi avanti in termini di sicurezza. Ma non ancora sufficienti per evitare le devastazioni generate dai tanti, troppi incendi che continuano a rimpicciolire i nostri boschi e le nostre foreste. Un ricordo particolare vada, in questa eucaristia, a Elena Lo Duca, la donna della Protezione Civile di 56 anni morta il 21 luglio scorso a Prepotto (Udine) mentre tentava di arginare un incendio. E proprio in questa arida, secca e infuocata estate 2022 (che passerà alla storia per il suo triste primato di temperature sopra la media e per l’anomala siccità) la chiesa ci consegna – per la nostra preghiera – il passo del Vangelo di Luca in cui Gesù dichiara che “Sono venuto a gettare i fuoco sulla terra, e quanto vorrei fosse già acceso!”.

Si tratta di un accostamento delicatissimo. Non solo perché se il fuoco scappa di mano diventa rogo che distrugge, ma anche perché da sempre il fuoco è stato associato al castigo ed è stato presentato come il contesto ideale per qualsiasi punizione esemplare.

Gesù usa questo simbolo – il fuoco – ma ne rovescia il significato. E non lo accosta a castighi, punizioni o distruzioni varie, ma lo presenta come il segno e il simbolo per eccellenza del Suo amore capace di “fermare” – per la nostra vita e per l’umanità tutta – tanto l’odio quanto la violenza.

Una vera rivoluzione copernicana, dicono gli esperti. Il “fuoco” di cui parla Gesù è l’immagine forte che descrive il Suo amore per noi. Gesù non “distrugge” e non avvolge nel fuoco eterno chi sbaglia o chi commette peccati (mai!), ma decide di amare ciascuno di noi fino alla fine, al di là di ogni merito e oltre qualsiasi colpa.

Così facendo Gesù rompe l’immagine del “dio” che castiga, che punisce e che premia i buoni e condanna i cattivi alla pena del fuoco eterno per presentarci un Dio Padre che ama e che perdona sempre e che non condanna e non punisce, mai. E a chi resta spiazzato da un Dio che sembra indifferente rispetto ai comportamenti umani, Gesù fa capire che chi si abbandona all’egoismo, alla violenza, all’odio e al rancore incontra da solo la sua punizione! L’inferno, per capirci, non appartiene a Dio e non riguarda l’al di là, ma lo costruiamo noi, su questa terra, ogni qual volta lasciamo vincere le logiche dell’odio, del rancore e della vendetta (e le tante guerre che sporcano di sangue il nostro pianeta, compreso il martirio della popolazione ucraina, confermano che l’inferno non è opera di Dio, ma nostra, dell’uomo).

Il “fuoco” di cui parla Gesù è anche – però – l’immagine e il simbolo del Suo Spirito che si posa su di noi al momento del battesimo per prendersi cura della nostra vita. È vero: non sappiamo più cogliere questa presenza all’interno del nostro cuore. Ma se permettiamo alla Parola di Gesù di illuminare mente e cuore, subito lo Spirito di Gesù ci aiuta a prendere coscienza che siamo, da una parte, amati da Dio con il “fuoco” che cura e che perdona e, dall’altra parte, che siamo anche messi in condizione di amare chi vive con noi senza cedere alla tentazione degli steccati, del rancore e dell’odio permanente. Lo Spirito di Gesù è perciò “fuoco” che brucia in noi i dissapori e i risentimenti per restituirci la possibilità di sempre nuove relazioni. E su questo punto Gesù è chiarissimo: il “fuoco” del Suo Spirito inaugura il nuovo modo di vivere che prende le distanze dalle logiche “vecchie” di chi si fida solo della violenza. Lo Spirito di Gesù ci divide e ci allontana da chi si affida alla guerra, alla violenza, alla punizione esemplare e rifiuta il perdono. Ma si noti la finezza: le divisioni di cui parla Gesù sono tra “vecchio” (padre) e “nuovo” (figlio), tra “passato” (le tradizioni di ieri) e “presente” (la logica del Vangelo). A livello orizzontale e tra “fratelli” non ci sono divisioni. In comunità ci possono essere fatiche, litigi o anche conflitti, ma tutti – grazie al fuoco dello Spirito di Gesù – superabili per riportare le relazioni nel solco della comunione.

Ben venga, nel mese di agosto, il sole che abbronza e che a volte brucia la nostra pelle, non rinunciamo però al “fuoco” dello Spirito Santo che – con l’aiuto del Vangelo – ci entra nel cuore per cambiare il nostro modo di essere, di pensare e di vivere.

Buona Festa dell’Assunzione di Maria in Cielo e buon Ferragosto a tutti.

 

Preghiera dei piccoli

Caro Gesù,

appena ho letto il Tuo van­gelo ho pensato a Martina. I suoi genitori si sono separa­ti. Lei ci sta tanto male e dà la colpa a Te della situazione.

Sono convinto che Tu non fai separare gli sposi.

Anche perché Tu ci doni la Pace e ci inviti a scambiarci segni di pace.

Gesù mi aiuti a capire che cosa vuol dire che Tu sei venuto “a portare la divisione sulla terra”?

Se vuol dire che chi diventa Tuo amico deve essere pronto a stare dalla Tua parte anche quando qualcuno lo invita a pensare solo a se stesso e a non occuparsi delle sofferenze degli altri, allora mi piace.

Gesù non mi piace litigare e non voglio mettermi contro nessuno. Aiutami però a stare con Te, sempre.

Anche quando diventa difficile seguirti. Anche a costo di perdere qualche amico.

Grazie, Gesù.

XIX DOMENICA ANNO C

Vangelo di Luca 12, 32 e seguenti

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:

«Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno.

Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore.

Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito.

Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!

Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».

 

Siamo entrati, quasi senza accorgercene, in un modo di vivere che certamente non è sano. Per fare qualche esempio: abbiamo venduto la paura di morire con l’illusione della “sicurezza”. Ed è per questo che ci siamo dotati di porte blindate, di sistemi di allarme sempre più sofisticati, di controlli satellitari e di polizze assicurative cariche di clausole e di premi anti-tutto. Risultato? Viviamo barricati nelle nostre case sempre più impermeabili al prossimo; allo stesso tempo – però – siamo impreparati a reggere il confronto con la morte e dunque con la vita vera! Secondo esempio: abbiamo scelto di entrare con mani e piedi in quel consumismo che ha sostituito la verità del vivere con la ricerca del piacere ad ogni costo e delle comodità a qualsiasi prezzo. Anche per questo abbiamo deciso di “sfruttare” l’oggi senza nessuna attenzione al domani che pagherà a caro prezzo le nostre scelte ambientali, demografiche e di abuso dell’unica terra che abbiamo. Risultato? Siamo sommersi da tutti gli agi possibili e immaginabili, ma non siamo più in grado di fare i conti con la verità della vita (anestetizzati come siamo dalla sterile rincorsa del lusso).

Per usare un’immagine: abbiamo deciso di indossare lo stesso abito in casa e “fuori”. Ma se in casa ha un senso, al termine di una giornata di lavoro, indossare abiti larghi e comodi per riposare, il vivere con gli altri e per gli altri ci chiede di indossare la tunica “stretta ai fianchi” per rendere agile e snello il movimento. Non solo: dobbiamo anche tenere con noi la “lampada accesa” per non sbagliare strada e per non cadere nel dirupo.

Perdere di vista la distinzione tra abito del riposo e abito del giorno, ci inganna e ci auto-illude che la vita sia una vacanza senza fine e un villaggio turistico che non chiude mai e che propone in modo ininterrotto le sue attività ludiche.

Per fortuna non è così. Riposo e divertimento sono la “sosta” che danno senso al vivere. Senza mai dimenticare – però – che ciò che non ha fine è la vita spesa per gli altri, non la vacanza pagata dagli altri.

Questo vuole dire “Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese”. Un forte invito che Gesù ci consegna per “fermare” gli inganni in cui ogni generazione rischia di cadere. Si noti però il particolare interessante. Quando il padrone (in greco kurios, termina che indica il Signore risorto) al suo ritorno trova i suoi servi ancora “svegli” (capaci

 

di amare e di servire), che fa? “Si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli”. E un’immagine bellissima usata da Gesù per dirci che quando la vita terrena spesa per il prossimo volge al tramonto, non si smette di vivere, ma si entra nella vita che non ha più fine e dove è Lui, il Signore Gesù, che ci fa sedere a tavola e che passa a servirci. Se non ci facciamo aiutare dal Vangelo che è la lampada che deve accompagnare la nostra vita, facciamo l’esatto contrario: passiamo la vita a mangiare (male, di tutto e di più con tutte le patologie sanitarie che ne derivano), per poi cercare i nostri cari defunti al cimitero. In realtà, però, chi vive per gli altri (“Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e con le lampade accese”) scopre giorno dopo giorno che il Signore Gesù non lo abbandona mai e che anche nel momento finale del suo percorso terreno lo accoglie, lo introduce nel Suo Regno dove la vita non ha più fine, lo fa sedere a tavola e passa a servirlo.

Abbiamo anestetizzato la morte e l’abbiamo ridotta a un numero (i morti per covid al giorno, i morti nella drammatica aggressione dell’Ucraina da parte della Russia, i morti in guerre, sul lavoro, in incidenti stradali…). Quando però chi muore non è un numero, ma un volto, un nome, una storia e una persona cara, siamo spiazzati, arrabbiati e incapaci di continuare il dialogo con chi abbiamo l’impressione che non ci sia più. Molti di noi lo cercano disperatamente tra le lapidi al cimitero, ma solo il Signore Gesù ci insegna a sentire con noi chi ha cambiato modo di vivere. L’eucaristia che Gesù ha istituito dopo essersi cinto i fianchi (Giovanni 13) è esattamente il luogo dove noi incontriamo i nostri fratelli che hanno concluso la corsa terrena e che sono – ora – alla tavola del Signore Gesù.

Nel cuore dell’estate un invito ad indossare vesti strette ai fianchi e a portare con noi la lampada accesa (del Vangelo) è il modo – originale e saggio – con cui san Luca ci augura buone vacanze.

Caro Gesù,

Simone, il fidanzato di mia sorella, non la chiama quasi mai per nome, ma sempre “tesoro”.

Mia nonna, invece, chiama me “tesoro” (ma il nonno lo chiama per nome!).

Ti faccio questa confidenza perché mi ha colpito molto la tua espressione “dov'è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore”.

Hai ragione Tu, Gesù: quando il cuore si attacca alle persone che ci vogliono bene o a delle cose che ci piacciono, quello diventa il “tesoro” della vita.

E quando diciamo “tesoro” a qualcuno è perché il cuore ha scelto quella persona da amare.

Gesù, voglio fare diventare Te il mio “tesoro”. E voglio che il Tuo Vangelo mi guidi giorno dopo giorno, per tutta la vita.

Grazie Gesù, perché Tu ci vuoi così bene che ad ognuno di noi dici “Tesoro”. Sei forte, Gesù.

Ci precedi sempre.

La sera delle stelle cadenti esprimo questo desiderio.

XVIII DOMENICA ANNO C

                     XVIII DOMENICA ANNO C  con preghiera dei piccoli

Luca 12, 13-21

Gesù disse loro una parabola: "La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: "Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così - disse -:demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!".                                               Ma Dio gli disse: "Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello

che hai preparato, di chi sarà?". Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio"».

 

Il detto popolare considera il parlare da soli una malattia mentale. E l’incontro, spesso occasionale, con persone alle prese con soliloqui più o meno equilibrati, conferma questa diagnosi. Sono soggetti che a volte parlano sottovoce; altre volte urlano, gridano, denunciano soprusi o torti subiti senza, però, lasciarsi incontrare. Anche perché chi parla da solo a causa del disagio psichico è impermeabile a qualsiasi offerta di dialogo. 

San Luca – che san Paolo nella lettera ai Colossesi presenta come il “caro medico” (Col. 4,14) – chissà quante volte ha incontrato, nella sua attività sanitaria, persone alle prese con la malattia psichiatrica. Ed è forse per questo che cura nei particolari la descrizione di questo “uomo ricco a cui la campagna aveva dato un raccolto abbondante” che presenta subito come malato nella testa. Per aiutare il suo lettore a capire che si tratta di una persona alle prese con disagi mentali, san Luca scrive che “ragionava tra sé”. Un uomo descritto e presentato come profondamente solo: senza legami con i familiari, con i figli, con gli amici o con i colleghi.

Il lettore è però aiutato a capire il perché di quella malattia. Quell’uomo ha perso l’uso della ragione perché alle prese con il delirio di arricchirsi, con il sogno di accumulare sempre più ricchezze e tutto preso dal bisogno di difendere e dal nascondere quanto possiede. Ed ecco come san Luca “dipinge” la sua pazzia: “Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e divertiti!” – (Lc. 12, 19).

San Luca è medico è sa molto bene che amare, servire e condividere sono le premesse della salute. Il medico evangelista è consapevole che vivere per accumulare (e per nascondere e contare quanto altri ci hanno permesso di ottenere) è avarizia che ammala non solo il cuore, ma anche la testa, il cervello e la ragione!

La forma esterna di questa malattia mentale si chiama individualismo ed è – molte volte – la vera causa di tanta stanchezza mentale, di depressioni, di stress, di ansie e di quello sguardo cupo di chi è abituato a spostare nel  futuro l’illusione dell’essere felice.

È una malattia che non risparmia nessuno. Ne è colpita la chiesa. Ed il fatto che in questi giorni il Papa sia in Canada a chiedere scusa alle popolazioni indigene di quella grande e bella Nazione, è perché ieri nessuno ha sentito il bisogno di uscire dalle proprie certezze e provare a mettere in discussioni le proprie sbagliate convinzioni.

Ma ne è colpita anche la politica. Quando la ricerca del voto, del consenso e del proprio prestigio viene prima degli interessi dei cittadini e prima del bene comune, è segno che si è cominciati a parlare da soli (a darsi ragione da soli!) e ad interessarsi solo del “mio” senza nessuna attenzione al “nostro” e al “loro”!

Domani, primo agosto, per la prima volta da oltre 100 anni dovremo convivere non solo con l’inizio delle vacanze estive, ma anche con l’apertura della campagna elettorale e con il succedersi di tanti e diversi comizi elettorali!

E avremo così l’impressione di “vedere” e di “ascoltare” non pochi politici che parlano “da soli”. Che non presentano soluzioni complesse e concrete a problemi difficili, ma che vendono facili ricette per ottenere il consenso, il voto e per conquistare il potere. Per se stessi. Discorsi – come ha detto in questi giorni il Direttore di Avvenire – scritti, molte volte, sulla sabbia di agosto e, come tali, dalla brevissima durata.

IL Gesù di san Luca è molto chiaro: chi usa pensieri, ragionamenti e parole illuso di sistemare per sempre solo se stesso è “stolto”. 

Ed il vocabolo “stolto” è termine impegnativo perché significa “pazzo”, “malato” ma anche “senza nessun riferimento” a Dio che ci chiede di non girarci dall’altra parte quando si incontra il povero, il malato, il carcerato, l’immigrato e chi ha bisogno di noi (“Lo stolto pensa: "Dio non c’è” – Salmo 14,1).

Il che significa che l’unico modo per diventare “signori” (non ricchi!) è quello di non parlare da soli per godere da soli dei propri beni, di non ragionare tra sé sul come accumulare e nascondere i propri averi, di non investire risorse energie e tempo per la “mia” carriera personale, ma costruire progetti, investimenti, calcoli, gesti e “parole vere” per ridurre le diseguaglianze e le distanze che separano chi ha nulla da chi ha troppo. Senza mai dimenticare che l’opposto di “stolto” è “beato”.

Buon mese di agosto a tutti.

 

                                               Preghiera dei piccoli

Caro Gesù,

                      ciò che più mi colpisce dell’uomo ricco della parabola è che non nomina mai la sua famiglia.

La moglie, i figli, i nonni, i fratelli o le sorelle: non ci sono nella sua testa. Parla da solo, ragiona tra sé e ha tempo solo per i “suoi” magazzini.

Chissà se alla mia età giocava con i suoi amici oppure se “contava”, da solo, i “suoi” giocattoli per poi nasconderli in camera “sua”.

Gesù aiutami a non vivere da “pazzo” e a non perdere di vista chi mi vuole bene e chi ha bisogno di me.

Ti prego, Gesù, insegnami a con-dividere quello che ho con chi ha meno di me. E aiutami a capire che vivere “per” gli altri e “con” gli altri rende felici.

 

 Domani partiamo per andare al mare, Gesù. Benedici il nostro viaggio e chi – quest’anno – non può andare in vacanza.

 

XVII DOMENICA ANNO C

                                    XVII DOMENICA ANNO C con preghiera dei piccoli

Luca 11, 1 -13

Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite:"Padre, sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano,
e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore,
e non abbandonarci alla tentazione"».
 
Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”; e se quello dall’interno gli risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono.
Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto.
Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».

La domanda che il discepolo pone a Gesù – “Signore, insegnaci a pregare” – è interrogativo che ci spiazza e che ci disorienta. Per una ragione molto semplice: perché il vivere tecnologico a cui ci siamo abituati (convinti o illusi che tutto si possa fare e realizzare) e la pratica del consumismo che ci ha addestrati nel comperare tutto e subito, ci hanno progressivamente allontanato da quella ricerca del senso che sorregge e alimenta il desiderio di pregare. È vero: in presenza di una malattia del figlio, prima di un esame o – nei casi più patologici – dopo aver tentato la fortuna con lotterie, schedine o gratta e vinci di ogni tipo, sono in molti che ripiegano su un pregare infantile e del tutto estranee al mondo della fede. Al di là però di questo parlare da soli alle prese con un bisogno da soddisfare subito, il nostro orizzonte di fede è abbastanza lontano dal domandare a Gesù: “Signore, insegnaci a pregare”.

Ma restiamo sul testo di san Luca. Perché quel discepolo pone quel preciso interrogativo al Suo Maestro? Quale spinta profonda lo guida in questa puntuale richiesta?

Di sicuro non cerca ricette e non chiede a Gesù un manuale dettagliato sul come, dove e quando pregare. Quasi sicuramente è stupito dall’osservare Gesù nel suo specialissimo rapporto con Dio e viceversa: dal rapporto che Dio ha con Lui, con Gesù.

È visibile ad occhio nudo, per chi vuole vederlo: Gesù si rivolge al Dio conosciuto in Israele come il tre volte santo (e dunque presentato sempre come inavvicinabile) in modo intimo, intenso e soprattutto capace di dare senso ad ogni momento del suo procedere.

Quel discepolo è testimone di un Gesù che non sta mai fermo, ma che sa fermarsi e che è capace di rientrare in se stesso senza mai lasciarsi prendere dall’ansia o dall’affanno; osserva un Gesù forte, esigente e severo, ma anche aperto (sempre) al perdono che solo Dio può concedere. La cosa però che più sconcerta il discepolo che interroga Gesù è la capacità del Suo Maestro di portare vita anche dove c’è sconfitta, fallimento o morte.

Quel discepolo – acuto osservatore – intuisce che la forza di Gesù proviene dal suo legame indissolubile con Dio e dal suo modo di pregare. Non gli chiede però di poter pregare come prega Gesù. Gli è abbastanza chiaro che si tratta di un registro unico e irripetibile. Ciò che il discepolo spera è di essere aiutato da Gesù a cambiare visione di Dio per imparare a guardare in modo nuovo il mondo, il fratello e se stesso.

Gesù raccoglie la provocazione. E conferma l’intuizione del suo discepolo: prima di esercitarsi nel pregare (con riti, formule, gesti e sacrifici vari) Gesù ci invita a cambiare immagine di Dio. Alcuni vedono Dio come un bancomat da usare in occasione di spese straordinarie o esigenze più o meno legittime (vacanze comprese); altri usano la preghiera per riportare a sé amori infranti o per invocare guarigioni da mali oggettivamente pesanti.

Gesù ricorda a chi lo interroga (e dunque a tutti noi) che il solo modo per imparare a pregare è quello di cambiare il nostro legame con Dio. E lasciare che il Suo amore si riversi sul nostro cuore per convincerci che il Dio di Gesù è Padre che ci ama, che ci perdona e che ci libera dall’individualismo. Dicendo “Padre” nel nostro pregare, non cambiamo solo modo di vivere (riconoscendo che siamo immersi in Lui e avvolti dal Suo amore), ma apprendiamo anche che il vero nome di Dio è “Emanuele, Dio-con-noi”.  Il che significa che solo quando si impara a stare “con” il fratello si fa esperienza di libertà, di amore e di perdono. Senza il fratello accanto, ci si illude di stare bene, ma in quella prigione dorata che si chiama individualismo, si smarriscono la libertà e il senso del vivere.

Signore, insegnaci a pregare” è perciò domanda profonda per imparare a vivere e ad amare. Anestetizzare questa domanda, ha voluto dire renderci soli, carichi di stress, ansiosi e stanchi persino in vacanza. Solo chi sintonizza il suo respiro sul soffio dello Spirito di Dio e della Sua Parola impara l’arte del vivere per gli altri e si ritrova immerso nella libertà.

Per finire. Il fatto che la domanda sia nata dopo la parabola del buon samaritano e dopo la vicenda di Marta e Maria, è il segno che il modo migliore per spingere la nostra vita verso l’infinito è questo: seguire il Maestro che ci chiede di farci prossimo di chi – per caso – ci avvicina e imparare a fermarci per restare seduti ad ascoltare, meditare e pregare la Sua Parola.

Stili di vacanza lontani dalle proposte patinate di crociere o di tanti luccicanti villaggi turistici, ma decisamente più rigeneratori di tante escursioni costose e poco riposanti.

Buona domenica a tutti e a ciascuno.

 

  Preghiera dei piccoli

                             Caro Gesù, oggi, dopo aver ascoltato il Tuo Vangelo, mi sono fatto questa domanda: ma la preghiera del Padre Nostro è più bella quando la recito da solo o quando la dico a voce alta e insieme agli altri?

A me piace tanto, quando sono da solo, dire con calma questa preghiera. La recito prima di andare a letto oppure quando decido di stare un po’ con Te. Ma poi trovo molto bello anche quando il don, a messa, ci fa salire attorno all’altare, quando ci fa prendere per mano e quando ci chiede di dire la Tua preghiera tutti insieme. Alla fine ho deciso: sono due bellezze diverse e non c’è un pregare più bello dell’altro.

Grazie Gesù perché con questa preghiera mi ricordi che qualunque persona che incontro è, per me, fratello e sorella. 

È un insegnamento bellissimo. Ancora una preghiera, Gesù.            Fa che tutti, in queste vacanze, possano fermarsi e riposarsi.

XVI DOMENICA ANNO C

            XVI DOMENICA ANNO C con preghiera dei piccoli

Vangelo secondo Luca  10, 38 - 42

In quel tempo, mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi.
Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».

Da generazioni i credenti che pregano questo passo del vangelo di san Luca si sono posti il problema di provare a definire chi, oggi, può essere rappresentato dalle figure di Marta e Maria. Per dare al Vangelo la forza di entrare nelle pieghe della attualità e per impedire che la Parola di Dio esca dalla storia in cui siamo immersi.

Proviamo anche noi a interrogarci su quali aiuti ci consegna l’evangelista con questo racconto. Noi, che siamo alle prese – ogni giorno – con politici che si affannano, che si agitano e che dicono tutto e il contrario di tutto per dimostrare, al termine del loro perenne movimento, l’immobilità assoluta di chi non si sposta di un millimetro dalla sua postazione di potere. Perché il primo effetto (il più superficiale) dell’agitarsi continuo, è dato dal restare sempre allo stesso posto. Nessuno è fermo come chi corre sempre, senza fermarsi mai. Così come nessuno avanza, cresce, si sposta, cambia e “serve” gli altri come chi sa fermarsi, sa sedersi e sa ascoltare. Un secondo effetto visibile in chi si affanna di continuo e in chi si lascia sopraffare dall’ansia e quello di restare avvitato su se stesso.  Come a dire che il politico che non sta mai fermo, che parla sempre, che minaccia, che dice, non dice, nega e poi smentisce tutto e persino se stesso è – di fatto – un soggetto che si muove solo per se stesso e per di fendere la sua postazione. Come Marta, il politico esagitato e sempre alle prese con l’affanno, si illude di governare la casa comune; di fatto – però – è schiavo della sua immagine, dei consensi, dei sondaggi e degli opinionisti che stilano classifiche sulla sabbia delle apparenze. Come Marta, questo politico si vanta di essere schietto e considera un merito “dire ciò che pensa”. Ma non si accorge che non “pensare a ciò che si dice” è un errore, una caduta di stile e una grave mancanza di rispetto verso l’altro. Marta dà ordini al “suo” ospite che vorrebbe ricoprire di attenzioni e non si accorge che dare ordini e comandare sono verbi che non costruiscono affetto e che non curano il bene comune.

Per questo Gesù chiama Marta due volte per nome. Perché la vede fragile e vittima della sua ambizione, della sua invidia, della sua voglia di comandare e così autocentrata su se stessa da nemmeno accorgersi che sua sorella si è resa capace di fermarsi, di sedersi, di ascoltare e di non giudicare.  Gesù chiama due volte per nome Marta perché la vuole aiutare ad uscire dal labirinto che la tiene prigioniera e che le impedisce di cogliere la luce (bella e salutare) del servizio, della libertà e dell’amore.

Si tenga anche conto che Marta, in aramaico, significa “padrona di casa” e la sfumatura non è di poco conto. Rimanda al fatto che chi si interpreta come il “padrone” (di qualsiasi cosa: della casa, delle “cose”, del partito, della politica o delle istituzioni) di fatto è prigioniero del “suo” correre e delle “sue” ambizioni al punto da diventare schiavo del suo ruolo. Solo il servizio rende liberi, ci dice san Luca con questo magistrale insegnamento.

E perché ciascuno di noi interiorizzi questo insegnamento, l’evangelista ci presenta un Gesù che con autorevolezza e affetto prova a riprendere Marta perché da padrona-schiava, torni ad essere donna libera capace di fermarsi e di anteporre le relazioni al desiderio, delirante, di tenere tutto sotto controllo.

Un tempo si usava questo racconto per fondare la superiorità della vita contemplativa (la parte migliore!) sulla vita attiva. In realtà non è così. Molto più saggio rileggere Marta e Maria come le due parti che convivono in noi. Dove, da una parte, ritroviamo la Marta che non si ferma mai, che adora controllare tutto, dominare ogni evento ed essere ascoltata. Dall’altra parte, invece, ritroviamo quote consistenti di Maria: che ci invita a fermarci, a sederci, ad ascoltare e a fare quel sano silenzio che rende libero il cuore dal parlare inutile (contro gli altri). Due spinte diverse che ci attraversano. Quando in noi vince la condotta di Marta, lo Spirito di Gesù ci chiama per nome (due volte) e ci invita ad allontanarci da quel parlare da soli e da quell’affanno che ci avvelena l’esistenza. Ci propone la postura – riposante – dell’ascolto della Parola di Gesù per scoprire che “fermarsi” ad ascoltare l’altro libera il cuore e lo immerge nella logica del dono, del perdono e del servizio. I sentieri della vita libera e liberata dall’egoismo.

La parte migliore scelta da Maria è proprio questa: il coraggio di fermare la tentazione dell’inseguire il potere (e dunque se stessi) per scoprire che ascoltare rende liberi e vivi.

Buon riposo a tutti. Ai piedi del Signore Gesù e nell’ascolto della Sua Parola.

                                                         

                         

                                                                         Preghiera dei piccoli

Caro Gesù,                        

                     mi chiamo Marta. Ho 10 anni e mio fratello si chiama Pier Giorgio. Oggi Pier (come lo chiamo io) mi ha detto che anche Gesù mi sgrida.

Io, gli ho risposto che però mi chiami due volte per nome.

Poi però ho pensato che a Te non interessa difendere Marta o Maria. Tu vuoi che tutte e due stiano bene e che tutte e due siano felici.

Noi diciamo: chi sceglie Gesù? Marta “o” Maria?

E Tu rispondi Marta “e” Maria.

Noi pensiamo spesso di dover scegliere tra Caino “o” Abele, ma Tu ci fai capire che Caino “e” Abele devono imparare a stare insieme, se non vogliono morire tutti e due. 

Sai questa sera cosa faccio?

Scrivo una grossa “E” su un cartoncino. La riempio di brillantini e poi la regalo a mio fratello.

Sarà il nostro segreto per non separarci mai e per superare ogni litigio.

XV DOMENICA ANNO C

XV DOMENICA ANNO C  con preghiera dei piccoli

Dal Vangelo secondo Luca 10, 25-37

In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».

La grande domanda che si fanno tutti coloro che si confrontano con questo indimenticabile racconto di Gesù, è la seguente: perché sacerdote e levita vedono un uomo mezzo morto sulla strada (aggredito e derubato da briganti) e “passano oltre” senza fermarsi?

Fino a qualche anno fa la risposta al quesito individuava nell’indifferenza la spiegazione al comportamento dei due uomini religiosi. Fretta, egoismo, autoreferenzialità e indisponibilità a farsi carico delle fatiche altrui sono le vere “cause” di quella pesante omissione di soccorso, si diceva (che per il nostro codice stradale è persino reato). E, all’interno di questa lettura, all’indifferenza del sacerdote e del levita si contrapponeva la solidarietà del smaritano (buono) capace di costruire prossimità e di coinvolgersi per è chi bisognoso di aiuto. Una seconda interpretazione del passo faceva emergere come l’atteggiamento del sacerdote e del levita non va definito un atto di pigrizia o di indifferenza, ma come un divieto religioso che proibiva, a uomini alle prese con il culto nel Tempio, di contaminarsi con uno straniero ferito (e dunque doppiamente impuro). Riflessione stimolante e ricca perché ricorda ad ogni credente che nemmeno l’appartenenza religiosa ci immunizza dalla diabolica tentazione del chiudersi ai bisogni del fratello e dalla scelta di “passare oltre” in presenza di persone ferie che dalla “strada” (o dal “mare”!) chiedono aiuto. Bello, in questo contesto, ricordare l’entusiasmo che suscitò il card. Carlo Maria Martini quando, commentando questo passo, spiegò a tutti che alla domanda posta a Gesù dal dottore della Legge su “Chi è il mio prossimo?”, il Maestro di Nazaret ribaltò l’interrogativo e invitò chi lo ascoltava a uscire dalla casistica di quesiti inutili e astratti, ma a camminare nella vita con la disponibilità generosa di chi sa “farsi prossimo” di chi si incontra. Un forte invito, dunque, a non usare mai il nome di Dio per giustificare il proprio egoismo, l’indisponibilità ad aprirsi ai bisogni del fratello. Esattamente come ha fatto il buon samaritano che – fuor di parabola – è la figura di Gesù stesso. Buon samaritano che, “passando” accanto al ferito, non si gira dall’altra parte, ma lo vide, ne ebbe compassione, si fece vicino per curare le sue ferite e, infine, lo portò con sé in un posto sicuro. A noi il particolare sfugge, ma quel richiamo alla “compassione” è un forte rimando alla realtà di Dio Padre. Solo Dio ha compassione. L’uomo può amare e avere misericordia. Ma solo il Dio di Gesù ha la compassione che cura e che rigenera la vita. L’atto del samaritano (buono) è la conferma che nell’occuparsi del prossimo ognuno di noi diventa come il Padre (“che ha compassione”) e dirige i suoi passi alla presenza di Dio.

Per noi oggi è difficile cogliere la novità di un testo letto e ascoltato mille volte. In noi le interpretazioni del passato si mescolano nella nostra mente con il forte rischio che non smuovano più il nostro cuore. In realtà, per quanto il buon samaritano ci risulti simpatico e per quanto ognuno di noi debba identificarsi con lui per stare bene, non possiamo dimenticare che anche noi spesso e volentieri siamo come il sacerdote e il levita che testardamente procedono per la loro strada senza nessuna disponibilità a confrontarsi con quanto – sotto i nostri occhi – sta cambiando. Pandemia, guerra e cambiamenti climatici confermati dalla tragedia della Marmolada, non sono piccoli eventi che possiamo fingere che non ci siano e “passare oltre” come se nulla fosse mai accaduto! Ma lo stesso va detto per le nostre comunità cristiane. Tra le giovani generazioni e il Vangelo si è creato uno steccato che è impossibile non vedere. La tradizionale pastorale che fino a ieri funzionava (sacramenti, catechismo, messa domenicale, oratorio e servizi educative e caritativi), oggi arranca, fa fatica e, in molti casi, è così fortemente segnata da abbandoni a da numeri esigui, da generare sfiducia e sconforto. Molte nostre case sono orfane di gioia, di amore e di quella compassione intesa come la presenza di Dio che cura e che rigenera vita.

Così illuminata la parabola del buon samaritano ci rinnova la vita. Ci sprona a cambiare strada per vivere meglio e a non avere paura dei cambiamenti. Ci invita a lasciarci curare da quel buon samaritano – Gesù – che fascia le nostre ferite fatte di depressione, di solitudini, di chiusure verso il nuovo, di apatia e di stanchezza interiore. E ci spinge verso quel rinnovamento sociale, spirituale ed ecclesiale che dovremmo osare e intraprendere, ma che – per mille ragioni – preferiamo non avviare perché il nuovo ci fa paura ed è faticoso da accogliere (e come il sacerdote e il levita preferiamo irrigidirci a camminare sulla vecchia strada che non conduce più alla mèta dell’essere beati).

Buona domenica e buon mese di luglio.

                                                                                          Preghiera dei piccoli

Caro Gesù, non mi aspettavo di trovare l’espressione “per caso” nel Tuo Vangelo. Mi sono sempre chiesto: “Ma perché sono finito in questa famiglia, in questa parte del mondo, con questi compagni, etc?”. Non ho scelto niente.

Tutto è arrivato “per caso”. Però in “quel caso” ci sei Tu, Gesù, che mi doni la possibilità di fare del bene e di prendermi cura di chi soffre. 

Non ho mai pensato al mio compagno disabile che “per caso” hanno messo nella mia classe come una occasione per imparare ad accogliere tutti.

Oggi mi hai cambiato punto di vista. Decidere di non fermarsi davanti al ferito incontrato “per caso”, rende brutta la vita di tutti. 

Grazie Gesù per questo nuovo insegnamento. Sono venuto a messa “per caso”, ma il Tuo Vangelo mi ha cambiato modo di pensare e di vivere.

P.S. Dona, Gesù, nel giorno di san Benedetto la Tua Pace alla nostra Europa.